Dopo le provocazioni della Polonia. Quale rischio corre la UE?

 

I nuovi membri hanno interpretato la UE come una elargitrice di contribuzioni economiche, quasi un corrispettivo dovuto a popolazioni che avevano dovuto patire decenni di economia pianificata, e di conseguenti ristrettezze economiche. Molto meno hanno riflettuto sui doveri conseguenti nel campo delle libertà e dei diritti.

 

Enrico Farinone

 

Le continue provocazioni che Polonia e Ungheria (e sebbene in modo meno plateale quelle degli altri due membri del c.d. Gruppo di Visegrad, ovvero Slovacchia e Cechia) stanno ponendo in essere nei confronti dell’UE non potranno durare all’infinito. L’Unione dovrà agire con severità, se esse dovessero proseguire. Un’anticipazione di quanto potrebbe accadere la si è avuta con il duro scontro fra la Presidente Von der Leyen e il premier polacco Morawiecki nell’aula del Parlamento di Strasburgo. Al successivo Consiglio Europeo i toni sono stati meno aspri, e auspice una mediazione della cancelliera Merkel si è raggiunto un compromesso dilatorio che però non muta i termini della questione. Che è di massima grandezza, oserei dire esistenziale per la stessa UE. E in ogni caso la tensione è ieri risalita al massimo livello dopo la multa inferta a Varsavia (1 milione di euro al giorno) dalla Corte di Giustizia europea.

Non entro qui nello specifico, sia riguardo alla rivendicazione della Corte Costituzionale polacca circa la supremazia del diritto nazionale su quello europeo, sia riguardo alla richiesta di finanziamento comunitario per la costruzione di muri alle frontiere esterne per bloccare l’accesso di profughi. Dico in termini generali: qui si tocca uno dei pilastri sui quali si regge l’Unione. Nel 1993 vennero sottoscritti i “Criteri di Copenaghen”, utili per chiarire con precisione ai Paesi già appartenenti al Patto di Varsavia che alcuni principi non garantiti affatto nei regimi comunisti erano al contrario basilari nell’occidente liberaldemocratico: stato di diritto, separazione dei poteri, istituzioni garanti dell’ordinamento democratico, riconoscimento pieno dei diritti inalienabili della persona umana, rispetto e tutela delle minoranze.

Affermazioni ovvie ad ovest e incarnate nelle dichiarazioni fondative delle principali famiglie politiche, quella popolare e quella socialdemocratica, e pure di quelle minori liberali, ambientaliste, socialiste radicali. Non così purtroppo ad est, per via di un percorso storico differente che però forse si immaginava non avrebbe lasciato sedimenti per un tempo così lungo. Dal 1993, passando per i Trattati di Nizza (che comunque segnarono un grave arretramento sul piano dell’intesa sui valori di fondo, influenzati come furono da una banale disputa aritmetica sul “peso” dei diversi Stati membri) al 2004, anno nel quale venne sancita l’adesione di ben dieci Paesi, ai quali se ne aggiunsero successivamente altri tre, evidentemente non si è riusciti, o non ci si è impegnati in modo adeguato, a favorire la introiezione di questi principi: i nuovi membri hanno interpretato la UE come una elargitrice di contribuzioni economiche, quasi un corrispettivo dovuto a popolazioni che avevano dovuto patire decenni di economia pianificata, e di conseguenti ristrettezze economiche. Molto meno hanno riflettuto sui doveri conseguenti nel campo delle libertà e dei diritti.

La crisi economico-finanziaria ha poi generato un senso di sfiducia, certamente accentuato dalla lunga e discutibile gestione della crisi greca che ha rafforzato un mai del tutto abbandonato nazionalismo tipico dei popoli slavi ma poi debordato altrove, innaffiato con abbondanti dosi di facile populismo che senza difficoltà ha indicato nella UE la principale causa della decrescita iniziata nel 2007/2008.

E quindi – anche se può apparire poco elegante il dirlo – in Europa si sono fronteggiate, e si fronteggiano tuttora, due diverse idee: quella imperniata su democrazia e diritti/doveri, oltre che sul libero mercato e quella essenzialmente utilitarista dei Paesi dell’ex impero sovietico. E’ come se ci fosse ancora una sorta di Cortina di Ferro. Lo dico forzando i toni, naturalmente. Ma non è un caso, ad esempio, se la più forte opposizione a qualsiasi ipotesi di maggior unità (da ultimo, sulla Difesa comune) arrivi sempre da est. Ma mentre nel caso della Difesa si può comprendere la ritrosia di paesi come i baltici (che erano parte dell’URSS) o come gli altri appartenenti al fu Patto di Varsavia a perdere la protezione americana nei confronti dell’assertiva Russia putiniana in favore di una ancora troppo incerta Difesa comune, non è al contrario possibile accettare la pretesa di superiorità della legislazione nazionale su quella comunitaria senza con questo seppellire l’UE medesima.

Il punto è di quelli dirimenti. Insuperabile, però, sino a quando anche un solo Paese, col diritto di veto garantito della regola dell’unanimità, potrà bloccare qualsiasi evoluzione dell’Unione in senso maggiormente federale. Una regola che deve essere superata, ma che non si sa come superare. E la UE rischia di incartarsi.