Al centro del riformismo vi è il recupero di questo valore di solidarietà, che passa attraverso il riconoscimento della partecipazione, delle autonomie, dell’autogoverno, della valorizzazione delle società intermedie, la prima delle quali è la famiglia. Badate che le curve attuariali dicono che nel 2070 l’etnia italiana sarà di poco più di 20 milioni di persone in una penisola abitabile da 100 milioni.
Noi costituiamo un ministero dei Beni Culturali per dissotterrare le statue, per tenere in piedi gli “atrii muscosi”, i “fori cadenti” e abbiamo timore di essere tacciati di fascisti per propaganda demografica, ma non si tratta di propaganda demografica. Quello che l’Italia ha dato alla storia del mondo non può farci trovare cancellati, di modo che di qui a due o trecento anni la gente, i ragazzi che vanno a scuola ascolterebbero: “Ecco, c’erano i Sumeri nella pianura del Tigri e dell’Eufrate e c’erano gli Italiani tra gli Appennini e le Alpi”. E lo dico con tutta l’anima anche a tanti che sono qui: è meglio avere figli, anche se ti fanno sanguinare il cuore. Perché questa è la vita, questo è il contributo nel sacrificio, nell’amore, nella pena e nella gioia di vivere, che offre la continuità che dobbiamo dare al mondo, ai doni che da Dio abbiamo ricevuto. Se rinunciamo, come democratici cristiani, a qualificare la politica, se abbiamo timore, se abbiamo timore di parentele ideologiche con concetto della famiglia, allora siamo verso la fine. La famiglia non è ideologia, la famiglia è realtà della vita, che viene richiesta ogni giorno di più da giovani abbandonati, che fanno parte della civiltà della solitudine, quella che noi abbiamo costruito per i vecchi, per le donne appena sfiorisce la bellezza, per i ragazzi che si trovano privi dei genitori veri e ne hanno tre o quattro, azzannati da tutti gli sfruttatori e seminatori di odio e di morte; noi rinunciamo a un dato fondamentale del rilancio di una società più vivibile, di una vita che veda la partecipazione civile al lavoro, alla pace, alla libertà attraverso il volontario sviluppo delle associazioni, comprese quelle politiche, che rischiano il ruolo delle caste.
[Il testo completo fu pubblicato sul numero di ottobre del 1985 della rivista “Terza Fase”]