L’efilismo – neologismo anagrammatico di “life” – è un’ideologia nata in ambienti digitali, cresciuta nei forum nichilisti e diffusa a colpi di video, blog e saggi autoprodotti. La sua tesi di fondo è spietatamente lineare: la vita è intrinsecamente sofferenza, dunque è moralmente giusto – o addirittura doveroso – evitare la riproduzione e puntare all’estinzione dell’umanità. Non in nome dell’odio, ma della compassione. È il culto rovesciato della compassione, che assume l’eliminazione dell’essere come atto salvifico.
Non è solo misantropia. Non è semplice eco-ansia. È una teologia negativa travestita da razionalismo biologico, che ricorda da vicino l’eresia dei catari: anche per loro il mondo era corrotto, il corpo prigione dell’anima, la carne veicolo del male. L’unica salvezza? Il rifiuto della generazione, la purezza separata, la negazione del desiderio. Come i “perfetti” catari, anche gli efilisti si presentano come portatori di una rivelazione sconvolgente, ed eticamente assoluta: smettere di generare per smettere di soffrire.
Ma il salto dal pensiero alla violenza è breve. L’attentato di Palm Springs (California) – dove un giovane, lo scorso 17 maggio, ha aperto il fuoco in un centro per la natalità e la fecondazione assistita, lasciando un manifesto in cui si accusa l’umanità di “riprodursi per egoismo” – mostra la pericolosa torsione di queste idee. La cultura digitale accelera la radicalizzazione e la trasforma in gesto. È il segnale che l’efilismo non è solo una corrente estrema del pensiero, ma un virus culturale che può entrare nel corpo della società e provocare metastasi.
Le sue parole chiave – antinatalismo, estinzione volontaria, liberazione dalla sofferenza – seducono proprio perché sembrano razionali. In realtà, fondano una metafisica del rifiuto: del corpo, della storia, della relazione, persino della compassione vera, che implica accoglienza, cura, speranza. In sostanza, l’efilismo è una mutazione postmoderna del pessimismo gnostico, impresso, appunto, nel catarismo: il mondo non va redento, ma rifiutato; non trasformato, ma disattivato.
Forse non deve sorprendere che simili idee attecchiscano proprio in società dove il benessere è massimo, ma anche l’analfabetismo spirituale è radicale. Dove manca una grammatica del senso, il pensiero negativo conquista terreno, proponendo scorciatoie etiche al disagio esistenziale. Ma l’efilismo, se portato alle sue conseguenze ultime, non si limita a rinunciare alla vita: vuole che anche gli altri vi rinuncino, in nome di un’astratta (e terribile) compassione universale.
Per questo oggi serve un nuovo umanesimo, capace di dire sì alla vita senza rimuoverne la fatica. Non un ingenuo ottimismo, ma una cultura della responsabilità e della speranza. È tempo di riconoscere che certe dottrine, pur mascherate da razionalismo, sono eresie dell’umano. E come tali vanno contrastate. Con la forza della ragione, certo, ma anche con il coraggio spirituale di chi sa che la vita, pur ferita, vale la pena di essere vissuta.
Matteo Brambilla ha ricevuto il “Premio Segnalibro” 2025 con la pubblicazione del suo saggio Storia dei Catari tra predicazione e persecuzione (Progetto Arkès ETS).