Ieri una breaking news del New York Times rivelava che Harris e Trump sono testa a testa secondo l’ultimo sondaggio Times/Siena Poll Coverage. Come noto la battaglia decisiva si concentra nei sette swingle states (Arizona, Georgia, Nevada, Nord Carolina, Michigan, Pennsylvania, Wisconsin) e lì la rimonta della candidata democratica è stata notevole durante l’estate ma ora la spinta propulsiva derivata dalla rinuncia di Biden prima, dalla grinta positiva della Harris poi, dalla Convention di Chicago infine si è inevitabilmente affievolita. Adesso sono molti – informa il NYT – gli elettori che vogliono conoscere meglio “Kamala”, saperne di più sul suo imprinting culturale e soprattutto sui suoi programmi, volutamente ancora un po’ troppo generici su diversi temi. E dunque Donald Trump rimane forte anche alla fine di un mese e più assai duro per lui.
Non è da escludere, anzi è probabile, che Harris prenderà – come già Hillary Clinton nel 2016 – un numero di voti assoluti maggiore, trainata dal consenso femminile e afroamericano ma ciò potrebbe non bastare perché il sistema elettorale imperniato sul federalismo e quindi sull’elezione di delegati statali premia la vittoria in ogni singolo Stato e non quella numerica a livello complessivo. Sono gli Stati Uniti d’America: uniti sì, ma Stati.
Giusto o sbagliato che sia (certo qualche perplessità è più che comprensibile) questa è la regola. Che reca con sé una distorsione evidente, perché il grosso del confronto sostanzialmente si riduce alla fine a un quinto degli Stati. Un po’ poco, vero?
Il testa a testa a nemmeno due mesi dal voto ci dice una cosa importante e assai inquietante per tutti, non solo per gli americani, dato il rilievo che gli USA hanno nel pianeta su ogni questione, a cominciare da quelle geopolitiche. Ci dice che non ci sarà un vincitore netto e che il rischio di conteggi e riconteggi da qualche parte è elevato, e con esso il pericolo, reale, di una non accettazione dell’esito finale da parte dell’eventuale sconfitto Trump. Che per quattro anni non ha riconosciuto il risultato del 2020, gridando alla truffa e animando la gravissima e drammatica rivolta del 6 gennaio 2021.
Uno scenario da incubo per quel grande Paese ma pure per il mondo intero. Già la profonda divisione che così emergerà dalla società americana indebolirà l’azione esterna della nuova presidenza, che dovrà innanzitutto concentrarsi sui problemi nazionali. Trump lo farebbe in maniera hard, attuando il suo programma anti-migranti e tutto il resto; Harris al contrario lo farebbe in modo soft, cercando di coinvolgere parte del mondo conservatore moderato, come ha già fatto intendere con l’idea di mettere almeno un repubblicano nel suo eventuale governo. In ogni caso entrambi dovrebbero affrontare una seria crisi di consenso interno addirittura su uno dei principi-base della democrazia statunitense, la rappresentanza di tutti gli americani, riconosciuta da tutti gli americani, da parte del Presidente eletto.
Di questa situazione, che precipitando creerebbe una condizione assolutamente drammatica dagli esiti impossibili a prevedersi, potrebbero voler approfittare russi e cinesi, e sappiamo bene quali sono i loro primari interessi territoriali. Ma naturalmente non si tratterebbe solo di Ucraina e Taiwan, perché la partita per il dominio mondiale si giocherebbe su molti altri fronti, da quelli tecnologici a quelli ambientali, e su diverse altre aree geografiche, dall’Artico al Mediterraneo.
C’è dunque da seguire le prossime elezioni USA con molta attenzione e altrettanta preoccupazione. Se le cose andassero male, e c’è davvero da sperare che così non vadano, il mondo potrebbe subire un impatto non indifferente.
- Avviso ai naviganti europei: sarebbe meglio tenersi pronti.