Si affaccia all’uscio del Nazareno la candidatura, invero eccentrica, della giovane Elly Schlein: si cerca, oltre le mura della cittadella riformista, una leadership attrattiva per freschezza di immagine e chiarezza di proposta politica (laddove chiarezza sta per intransigenza). Ciò che appare utile, insomma, contro la destra vittoriosa è il salto nel cerchio di fuoco di un nuovo riformismo, facendone la sfida per gli stessi riformisti.
Lucio D’Ubaldo
Il dibattito nel Pd, mancando l’apporto visibile e concreto dei Popolari, stenta a decollare. Di fatto retrocede a disputa sulla evoluzione della sinistra, avendo per protagonisti essenzialmente gli eredi della tradizione comunista – gli ultimi iscritti alla FGCI – e le nuove leve del social-radicalismo: i primi impegnati a riconcentrarsi sulle ragioni del mondo del lavoro, con l’intento di uscire così dalla dimensione di partito delle Ztl, gli altri collegati alla sfavillante politica dei diritti individuali, emblema di quello che potremmo definire il libertismo occidentale. Si dimentica, per questa via, che l’invenzione del Pd valeva soprattutto per l’impresa di scavo e riordino di grandi temi, avendo di fronte le novità emergenti dall’archiviazione, dopo la caduta del Muro di Berlino, della “mitologia politica” del Novecento; un’invenzione poco casuale, del resto, data la necessità di provvedere a un nuovo inizio a fronte della declinante vicenda elettorale di Ds e Margherita, formazioni consegnate a cavallo del secolo ad un’esistenza politica stentata. Non era perciò la conclusione, bensì l’esordio di un processo all’insegna del riformismo.
Già questo una sorpresa. Come si sa, infatti, il riformismo rimanda a un’idea di cambiamento sociale che ha diviso storicamente la sinistra, sebbene poi divenga, nell’orizzonte della proclamata ricerca di unità, il collante metaforico dei democratici tout court. Nella Carta dei Valori, ora destinata nel congresso del Pd a mutamenti ancora imprecisati, il riformismo assorbiva e superava ogni altro termine conflittuale: perciò, nel documento, l’omissione ha riguardato parole chiave, tipo “socialismo” o finanche “sinistra”, a riprova di un modello tutto nuovo di partito che dentro un sistema di superiore convivenza mirasse a coniugare innovazione e solidarietà. Con varie formule. Si è passati, quindi, dal neo-azionismo di Veltroni alla “via emiliana al socialismo” di Bersani, dall’eclettismo lib-lab di Renzi al pallido e involuto dalemismo di Zingaretti, fino al più recente approccio democratico-illuminista portato avanti da Letta, senza successo.
Giunti a questo stadio, dirigenti e militanti di un partito pressoché instabile per costituzione, non sono in condizione di scavare nel pozzo della loro memoria collettiva a cagione del fatto che le “alternative interne” sono state sperimentate senza risparmio di energie, avendo contribuito negli anni, ciascuna e tutte insieme, al progressivo declino elettorale, con il risultato del 25 settembre scorso ben al di sotto di qualsiasi aspettativa della vigilia. Ecco perché adesso si affaccia all’uscio del Nazareno la candidatura, invero eccentrica, della giovane Elly Schlein: si cerca, oltre le mura della cittadella riformista, evidentemente inospitale per ampie fasce di elettorato, una leadership attrattiva per freschezza di immagine e chiarezza di proposta politica (laddove chiarezza sta per intransigenza). Ciò che appare utile, insomma, contro la destra vittoriosa è il salto nel cerchio di fuoco di un nuovo riformismo, facendone la sfida per gli stessi riformisti.
Un azzardo, si dirà, ma non per la candidatura in sé della Schlein, la quale avrà modo di correggere alcune asprezze o ingenuità dei suoi discorsi, perlopiù interdittivi o esortativi a seconda delle circostanze; piuttosto, a ben vedere, l’azzardo sta nel giro di questa reinvenzione del Pd, un giro tanto largo da concludersi nella dissociazione della proposta riformista dal suo fondamento necessario e ineliminabile: il principio di realismo. Senza realismo non ci sono alleanze, ma esercizi velleitari e incongrui, quasi sempre nel solco di soliloqui atteggianti a radicalità. Così, malgrado le intenzioni contrarie, il riformismo si trasforma in un bene immateriale, in qualche modo al servizio di una vocazione giacobina. Tutto l’opposto di quel disegno originario, improntato a concretezza e responsabilità, che doveva inglobare nella evocata “centralità” del Pd il progressismo – etico prima che politico – della sinistra, unitamente al sano gradualismo delle forze di matrice autenticamente democratica, in primis dei Popolari.