Colloquio con il filosofo Luciano Floridi pubblicato sull’edizione del 21 Aprile dell’Osservatore Romano a firma di Luca M. Possati
Il ruolo di internet e della tecnologia digitale, l’intelligenza artificiale, le responsabilità della politica, l’importanza della filosofia nel futuro del mondo post-coronavirus. Di questo abbiamo parlato con il filosofo Luciano Floridi, professore a Oxford, in un colloquio a tutto tondo sulle opportunità e i rischi che il coronavirus ci mette di fronte agli occhi. Direttore del Digital Ethics Lab a Oxford e chairman del Data Ethics Group dell’Alan Turing Institute, Floridi è autore di libri che hanno aperto e plasmato il dibattito contemporaneo sull’informazione e sulla tecnologia. Di una cosa è convinto: «La pandemia ci ha fatto capire i limiti dell’intelligenza artificiale. Al di là di sciocchezze fantascientifiche, dobbiamo usare l’intelligenza artificiale per fare del bene al mondo. Quel che fa la differenza è l’intelligenza umana».
Professore, dopo la pandemia cambierà il nostro rapporto con la tecnologia digitale?
La pandemia ha rivelato qualcosa di paradossale: la nostra corporeità ci rende più digitali, ci fa sentire una maggiore necessità del digitale. La pandemia ha mostrato che siamo esseri biologici e questo ci ha spinto sempre di più verso il digitale, il virtuale. La ragione è semplice: nel digitale non c’è il virus, o meglio non c’è quel tipo di virus. Questo passaggio è un punto di non ritorno: andiamo verso una digitalizzazione della nostra società sempre più marcata. Un secondo aspetto è la profondità di questo cambiamento, che dipenderà dalla diversità degli ambienti. In molti settori, come le banche o i servizi on-line, la pandemia segna il passaggio definitivo verso la completa digitalizzazione. Un terzo aspetto è la direzionalità: verso dove vogliamo indirizzare questo processo. Se lasciamo il controllo della digitalizzazione alle solite regole del mercato, avremo una situazione del tutto squilibrata, cioè grandi avanzamenti in un punto, pochi in un altro. Se invece questa direzionalità sarà più sociale, più politica con la “P” maiuscola, allora avremo una direzionalità buona e utile. In quest’ultimo caso, l’unico limite sarà quello della nostra buona volontà e del nostro impegno. Tutti dobbiamo partecipare. Le forze sociali da una parte, la Chiesa dall’altra, possono fare moltissimo. Non dobbiamo cercare di indovinare il futuro, come tanti pretendono di fare. Il futuro non è già scritto: siamo noi a plasmarlo. E in questo la solidarietà è fondamentale.
La direzionalità deve essere molteplice. Ma questo non pone il problema di chi guida e coordina le diverse direzionalità?
Più i sistemi sono distribuiti, più deve essere alta la misura del coordinamento. Un sistema ad alta distribuzione richiede una potenza di coordinamento enorme. L’unico buon coordinamento che si può fare è quello che si basa sul consenso, un consenso però che è stato costruito in maniera informata e intelligente. Questa forma di coordinamento è stata persa nella nostra società, che è diventata troppo individualista. Il punto è che accanto alla progettualità individuale deve esserci una progettualità comune e solidale. La pandemia ce lo sta mostrando: se non c’è un progetto comune, da soli non possiamo farcela. Abbiamo bisogno di un capitalismo meno individualista. Dobbiamo capire che il Novecento è finito; i modelli che il Novecento ci ha dato non offrono più le risposte giuste ai problemi attuali. Ma questo va inteso soprattutto in termini normativi: non possiamo più fondare la nostra progettualità comune sul modello delle strategie politiche e sociali elaborate nel secolo scorso. È un difetto di gran parte della nostra classe politica: non c’è una progettualità all’altezza delle sfide del XXI secolo. Se ci fosse una vera progettualità, si potrebbe evitare anche l’attuale situazione di stallo che abbiamo nei confronti delle grandi aziende digitali americane.
Che cosa intende con quest’ultimo punto?
È una situazione paradossale. Ci arrabbiamo se queste aziende non fanno nulla, ma ci arrabbiamo lo stesso se fanno qualcosa. Noi come società ci siamo messi in una situazione tale per cui se questi colossi, come Apple o Google, si muovono o non si muovono, siamo sempre danneggiati. Passata la crisi della pandemia, dobbiamo ripensare questo sistema sulla base di regole giuste. Bisogna ricordare che queste aziende sono terrorizzate dal fatto che possa arrivare una legislazione che le stronchi. La potenza del legislatore è straordinaria. Vorrei che la politica tenesse le mani sul volante, non il piede sul pedale dell’acceleratore. Una politica che guida, non che insegue. Ma al di là della politica, c’è un fatto sociale: abbiamo paura di adottare un progetto umano che stabilisca delle regole. L’abbiamo già fatto per cose che sono evidenti a tutti, come il terrorismo. Non riusciamo ancora a farlo per il mondo digitale. Alcune cose sono state fatte bene, come ad esempio, il Gdpr (General Data Protection Regulation). Ma questo esempio deve essere allargato e rafforzato.
Che cosa manca alla politica per fare questo cambio di marcia?
Dobbiamo cambiare visione. Smettiamo di pensare internet e tutto il mondo on-line come se fosse un mondo di comunicazione. Non è questo. Internet e il mondo digitale sono un ambiente, un luogo in cui noi passiamo la maggior parte della nostra vita. Non possono appartenere a un’azienda privata. Una buona politica deve prendersene la responsabilità.
Non crede che alla base ci sia un problema soprattutto con la formazione dei nostri politici?
È vero. Si tratta di instaurare un circolo virtuoso che richiederà tanto tempo. In effetti, per troppo tempo si è attaccato e criticato il tecnicismo al potere. Si è veicolato il messaggio per cui i tecnici al potere è una cosa sbagliata. Come se un governo tecnico fosse un governo di serie b. Serve invece un momento di frattura. Serve capire come possiamo mandare al potere le competenze e le conoscenze. Fin quando andremo a votare pensando che la competenza non solo non è importante ma addirittura squalifica qualcuno per fare quel lavoro, non cambierà nulla. Dobbiamo spezzare questo ciclo. Ed è possibile farlo: non mancano le intelligenze. In Italia e nel resto d’Europa le persone competenti sono moltissime, ma si sono allontanate dalla politica. Bisogna riavvicinare le persone competenti alla politica. Il riavvicinamento lo può fare la società civile che deve chiedere di più alla politica. Chiedere capacità, impegno, voglia di fare il bene comune. Fino a quanto la società civile non avrà questa spinta, sarà difficile uscirne.
Platone era convinto che il filosofo dovesse diventare politico, che cioè la via verso una buona politica fosse anzitutto filosofica. Se questo è ancora vero, oggi la filosofia può giocare un ruolo?
La filosofia ha una grande opportunità oggi, quella di tornare sulla cresta dell’onda. Il digitale, e ancor di più la pandemia, può essere una scossa per la filosofia. Per me la storia della filosofia è un’onda sinusoidale, fatta quindi di alti e bassi. I punti più alti ci sono quando la filosofia si occupa dei problemi filosofici, mentre i punti più bassi ci sono quando la filosofia si occupa dei problemi dei filosofi. Quando si occupa dei problemi autenticamente filosofici, la filosofia ha un rapporto con il mondo vivace, anche traumatico in un certo senso. I veri filosofi hanno il coraggio di dialogare con i problemi pressanti del proprio tempo. Questi problemi vengono plasmati e trasformati dalla storia; un po’ restano sempre gli stessi, un po’ si rinnovano. Ma la filosofia diventa irrilevante, e quasi nociva, quando smette di pensare ai problemi filosofici e riflette soltanto su se stessa. Quando Platone è sostituito dai platonisti, Aristotele dagli aristotelici, Cartesio dai cartesiani, la curva scende. I platonisti si occupano non dei problemi filosofici come Platone, ma di Platone. Ma questo spesso è un lavoro sterile, scolastico, di antiquariato, senza sbocchi nella vita reale. È pura filologia, un po’ come collezionare francobolli.
Dunque, quale filosofia può rispondere alle sfide dell’oggi?
Io penso che la filosofia sia design concettuale. Un po’ come l’ingegnere, il filosofo identifica i problemi e mette insieme i pezzi per costruire una soluzione adatta a quei problemi e quindi a determinati requisiti. I problemi filosofici sono domande aperte, per le quali non c’è una risposta definitiva e che attraversano tutti i campi del sapere. Le risposte sono molteplici. Facciamo un esempio: se vogliamo realizzare una sedia, i progetti e le soluzioni possono essere tantissimi, anche se tutti hanno qualcosa in comune, dei criteri e delle condizioni. Ovvio, una sedia non deve farmi cadere. Le variazioni delle soluzioni devono stare in certi vincoli. In altre parole, la filosofia deve essere progettuale: deve capire come progettare il futuro sulla base del presente. Oggi la filosofia deve definire il progetto umano del XXI secolo.
Sta per uscire il suo nuovo libro: «Il blu e il verde: Idee ingenue per migliorare la politica» (Raffaello Cortina, Milano). Perché ha scelto di parlare di “idee ingenue”?
C’è un modo di parlare della politica che oggi deve recuperare l’ingenuità delle idee, del parlare buono e semplice. L’ingenuità delle idee è un’ingenuità non di partenza, ma di arrivo. Le idee ingenue sono quelle migliorate dalla riflessione. Non sono idee vuote, “astuzie della ragione”. Sono state invece svuotate dalle astuzie della ragione. Questo si collega anche al punto centrale del libro: la trasformazione dell’ontologia della politica. La politica deve adeguarsi a una trasformazione metafisica enorme, che sta avvenendo sotto i nostri occhi. Stiamo passando da un pensare in termini di meccanismi a un pensare in termini di reti, da un pensare in termini di cose a un pensare in termini di relazioni. Il mondo è un insieme dinamico di relazioni. Se vuole assimilare questa rivoluzione, la politica deve diventare una scienza non tanto della res quanto della ratio publica, cioè delle relazioni, della cittadinanza e non dei cittadini.