Il tema del basso tasso di partecipazione alle elezioni è complesso e preoccupante, non solo in Italia ma a livello internazionale. Alcuni studiosi vedono in questo fenomeno un segnale di crisi profonda, che inseriscono nell’ambito delle “rivoluzioni epocali” descritte da papa Francesco. Qualcuno arriva persino a parlare di “morte della democrazia.” Tuttavia, abituati ormai a questo declino, molti considerano l’astensionismo quasi fisiologico, una manifestazione normale del nostro tempo. C’è persino chi lo interpreta come un fenomeno “provvidenziale”, affermando che alle urne si presentano solo i più istruiti, i più giovani e i più benestanti. Si rischia così di tornare a una democrazia elitaria, in cui votano soltanto coloro che vengono considerati più adatti a decidere per tutti.
È forse tempo di accettare che ciò a cui aspiriamo sia una sorta di “emidemocrazia” o “semidemocrazia”? Questa nuova forma di governo potrebbe diventare la realtà con cui fare i conti, a meno che non si trovi un modo per invertire la rotta. La sfiducia e il disinteresse verso il sistema politico sono infatti in crescita e hanno conseguenze evidenti: sempre più cittadini delegano la propria voce al “leader forte” di turno, compromettendo i principi di rappresentatività su cui si basa la democrazia liberale. Oggi, solo metà degli aventi diritto vota, e i risultati elettorali rispecchiano inevitabilmente questa realtà, con i rappresentanti scelti da una minoranza che poi governa per tutti.
Se vogliamo una democrazia che includa davvero il “demos” nella sua interezza, dobbiamo partire dal profilo culturale ed etico della classe politica. Potrebbero anche essere introdotte nuove modalità di voto — come il voto postale, il voto nei gazebo o persino il voto online — ma, allo stato attuale, nessuna di queste soluzioni appare priva di rischi, tra cui frodi e attacchi informatici. Quel che è certo è che oggi solo una “mezza democrazia” è nelle mani di un “mezzo demos,” con rappresentanti eletti grazie a percentuali di consenso irrisorie rispetto al totale degli aventi diritto.
Gli esempi recenti dimostrano quanto sia limitata la legittimazione degli eletti: nelle elezioni liguri, Giorgia Meloni ha ottenuto il 7% dei voti complessivi, e nelle politiche del 2022, con il 25% dei voti, ha governato con il supporto effettivo del 17% degli italiani. Questo calo progressivo nella partecipazione elettorale è documentato da dati impressionanti: nel 1983 quasi il 90% degli italiani votava alle politiche, oggi la percentuale è scesa sotto il 70%; per le regionali si è passati dall’88% del 1985 al 45% del 2024; e alle comunali e europee, il calo è altrettanto drammatico.
Le élite e le oligarchie, che sembrano beneficiare di questa situazione, spesso puntano il dito contro gli astensionisti, ignorando che tale disaffezione è alimentata da sfiducia, protesta, e disinteresse. Di fronte a una molteplicità di partiti e liste, il cittadino spesso si sente confuso e indeciso. La proliferazione di partiti personalistici e privi di radicamento territoriale, che rispondono solo al carisma di un leader e alle logiche dei media, contribuisce ulteriormente a scoraggiare l’elettore. Lontani dalle grandi idee di solidarietà, eguaglianza, e giustizia sociale, questi partiti promuovono un modello in cui l’“Io” prevale sul “Noi”, minando i principi stessi della democrazia partecipativa.
Di fronte a questa situazione, dobbiamo accettare che solo metà degli aventi diritto eserciti il proprio voto? Forse, per comprendere appieno il problema, è necessario considerarlo in una prospettiva più ampia. Da anni, studiosi avvertono della crisi non solo del voto, ma dell’intero sistema della democrazia liberale. Si parla ormai di “postdemocrazia”, di “democrazia del pubblico”, della “dissoluzione della democrazia”, e di nuove “dittature democratiche”.
Il dibattito sul premierato si inserisce in questo contesto di crisi della rappresentanza. L’idea di un premierato rafforzato, che promette maggiore stabilità e decisionismo, appare a qualcuno una risposta necessaria al senso di inefficacia che affligge le nostre istituzioni democratiche. Tuttavia, la concentrazione del potere in un singolo leader potrebbe esacerbare l’allontanamento dei cittadini dal processo democratico, riducendo ulteriormente le occasioni di partecipazione e controllo. In un sistema già segnato dall’astensionismo e dalla sfiducia, un premierato forte rischia di allontanare ancor più il “demos” dalla gestione della cosa pubblica, rafforzando quella che ormai appare come una tendenza verso una “mezza democrazia”, aggiungendo il rischio che per eleggere il premier…del premierato, si rechi alle urne, anche nel caso di ballottaggio, solo una minoranza di elettori.
La questione, quindi, non è solo se accettare o meno questa “metà democrazia”. Piuttosto, dovremmo interrogarci su come affrontare una crisi profonda che mette in discussione i fondamenti della rappresentanza e della partecipazione politica.