Primo pomeriggio di un giorno di metà aprile, è il 1988. Squilla il telefono sulla mia scrivania, accanto all’Olivetti 32 E’ la voce di un mio amico di Forlì. Hanno ammazzato Ruffilli, detta d’un fiato. E’un giornalista e cura i dettagli. Questa non è una telefonata ma una notizia d’agenzia. Sento un campanello e vedo il padrone di casa che apre la porta. E’l’ora di pranzo, quell’uomo mite e pacificamente pingue, con gli eterni Rayban che a lui non riescono a fornire l’aria da duro è rientrato da poco e vorrebbe mangiare un boccone in santa pace. Scapolo, è solo in casa. Ha passato una mattinata trascorsa a uno dei soliti convegni ai quali un parlamentare, e lui è senatore da cinque anni, non può facilmente sottrarsi. Quel giorno di primavera poi, alla Camera di Commercio di Forlì, si celebra il centenario dell’oratorio salesiano nel quale si è mosso da ragazzo Ruffilli e viene presentato “Liberi per la fede e per l’amore” di don Franco Zaghini. Come fai a non andarci si è chiesto il giorno prima Roberto.
Che sabato ragazzi. La sua è stata una grande settimana. Mercoledì scorso De Mita ,del quale lui è uno dei consiglieri più ascoltati, ha giurato con il suo governo. Qualcuno ha pensato che lì ci sarebbe stato posto anche per Ruffilli, ma niente e lui notoriamente non ha fame di potere. La fame piuttosto ce l’ha ora. Vuole riprendere fiato e si mette comodo, in maniche di camicia. Non aspetta nessuno. Buon sabato pomeriggio professor Ruffilli.
Suonano alla porta. Chi può essere? È il postino, anzi sono due postini che devono consegnargli un pacco. Appena dentro, questi lo spingono verso lo studio, inginocchiati, gli urlano Franco Grilli e Stefano Mingozzi, autori dell’ultimo delitto delle “vecchie Brigate Rosse”. Infine, compare l’arma, la mitica Skorpion Vz61 di acciaio color morte che scarica tre colpi alla nuca di Roberto. Il pacco dei finti postini verrà ritrovato tempo dopo, macchiato dal sangue di Ruffilli. Presto arrivano gli uomini della Questura e spuntano le prime ipotesi. Tra queste non c’è la pista che porta alle Brigate Rosse. La rivendicazione lascia perplessi, come si usa dire in questi casi. Possibile che siano ancora loro? Invece è così.
Cinque anni prima. Elezioni politiche del 1983. Roberto Ruffilli viene candidato da Ciriaco De Mita per il Senato, a Roma. Mi telefona una sera. Senti sai dov’è Fidene? Sì, gli dico. Ecco, questi della Dc organizzano un dibattito giovedì sera. Vieni con me a discutere? lo dico anche a Paolo Giuntella. Certo, rispondo. Giovedì pomeriggio lo vado a prendere alla sede dell’Arel, in piazza Sant’Andrea della Valle. Suono alla porta e mi apre lui. Prendo la borsa e andiamo, garantisce. Entro. Nel salone, seduti dietro due enormi tavoli vedo Nino Andreatta e Romano Prodi. Il tempo di salutarci e riappare Roberto. Dove andate? fa Andreatta. E Ruffilli, divertito, usando un lei fortemente accademico: sa professore, io sto in campagna elettorale e bisogna pur farsi conoscere dagli elettori. Andreatta scuote la testa, già bisogna pure farsi conoscere!
A Fidene, sulla Via Salaria, il dibattito organizzato dalla sezione democristiana e affollatissimo. Giuntella è in gran forma ed espone con la sua voce soave e cavernosa argomenti definitivi e apocalittici. Io interpreto la parte del dubbioso e dell’incerto. Roberto si diverte e non chiede voti tanto che alla fine è il segretario della sezione ad imporsi: mi raccomando a voi, questo è il nostro nuovo senatore!
Torniamo verso il centro e quando siamo in macchina Roberto mi chiede come sta mia madre. Sa che mio padre è morto il primo marzo di quel 1983. Che vuoi fare, dico, gli sto dietro, ma puoi immaginare. Sì, immagino.
Dopo le elezioni facciamo qualcosa per lei promette in una nuvola di fumo. Così è. Una volta eletto, a luglio, Roberto mi dice che deve andare a Venezia, per un convegno sull’isola di San Giorgio. Io in quei giorni ho in programma un’intervista sulla Biennale. Andiamo assieme. Ma porta con te mamma, dice. E partiamo. Noi due davanti, mia madre dietro. Lui e lei grandi fumatori che si stanno simpatici. Scherzano tutto il tempo e sarebbe bello che il viaggio fosse ancor più lungo. Ci vediamo spesso dopo.
Fino a quel giorno d’aprile, che è ”il più crudele dei mesi, genera lillà dalla terra morta, confondendo memoria e desiderio, risvegliando le radici sopite con la pioggia della primavera.”