La rinascita dell’Italia nel dopoguerra. A colloquio con Enzo Scotti.

La questione meridionale irrisolta torna al centro della preoccupazione dello Stato italiano

Caro Professore nel libro Suo e del Prof. Zoppi, l’incipit parte da una riflessione sulla contingenza del momento in cui è stato scritto, condizionata in modo globale dalla crisi pandemica che ha posto interrogativi sulle scelte del passato, poiché è di tutta evidenza, come si evince dagli studi di David Quammen , in particolare in Spillover ma anche dai Rapporti ONU/Ocse del 2019 , che a questo dramma planetario umanità e politica, cioè società e istituzioni, sono giunte impreparate. Sono emersi conflitti in tema demografico, di sostenibilità ambientale, di rapporto tra natura e progresso, comportamenti individuali e scelte collettive non suffragate da ponderate valutazioni. Può esprimere in che misura il Vostro lavoro ha preso atto di questa emergenza e ha ri-orientato lo ‘spirito’  del libro?

E’ ormai passato un anno da quando la Pandemia globale ha rivelato le estreme criticità di economie e società nel riuscire a fronteggiare la diffusione del virus. A questo punto, però, la scienza e la tecnologia potrebbero consentire, nel giro di un anno, di  produrre e distribuire  un vaccino o, come stiamo vedendo, più vaccini, e iniettarli alla gran parte del pianeta. Purtroppo sorge il “problema dei problemi”, quello dei Paesi più poveri per i quali i Paesi più ricchi dovrebbero assicurare  una Organizzazione della Sanità Mondiale in grado di portare avanti una difesa anche per loro. Oggi, gli Stati sono ancora nel pieno della battaglia al Covid 19 e devono affrontare sia i costi in vite umane che quelli  in distruzione di ricchezza, di benessere e devono gestire i cambiamenti nella organizzazione della vita collettiva, dalla scuola al lavoro e al tempo libero come alle stesse attività culturali e alle pratiche religiose. Le conseguenze della Pandemia impegnano un mondo che con modalità, tempi e risultati deludenti cercano di recuperare le ferite dalla crisi economica del 2008 e devono, nel contempo, governare una transizione al digitale e all’intelligenza artificiale nonché un cambiamento climatico e ambientale. Un cambiamento che richiede ai governanti una grande visione del futuro e una grande tempestività a metter in piedi meccanismi di confronto e di cooperazione, da moltissimi anni spariti dall’agenda di un multilateralismo. I Paesi Europei e gli Stati Uniti non possono attendere il concludersi della Pandemia per poi avanzare delle linee guida per garantire la sicurezza della salute e lo sviluppo nell’era del digitale e del verde. L’Italia non può, ad esempio, distrarsi dalle sue responsabilità di presidenza del G20 per stimolare una presa di consapevolezza di quanto nei prossimi anni il mondo dovrà fare. Con Zoppi, all’inizio del duemilaventi, stavamo completando la stesura di un dialogo sul governare l’Italia a settanta anni della costituzione della Cassa per il Mezzogiorno, cioè di un Paese che non è riuscito, a centocinquanta anni da Roma Capitale, a unificare in modo accettabile l’economia e la società italiana. Ci siamo chiesti se potevamo ignorare quello che stava avvenendo intorno a noi senza capire che le conseguenze della Pandemia si sarebbero cumulate con quelle della crisi del 2008 e con i cambiamenti epocali e avrebbero costretto i governi a riconsiderare gli scenari prevedibili e, conseguentemente, i progetti per la ripresa dello sviluppo. Questa sfida di governo potrebbe trovare alcune importanti analogie con quella che si trovarono i governanti del secondo dopoguerra. Non si tratta di trovare in quella esperienza soluzioni per governare gli anni che sono di fronte a noi ma di stimolare la creatività per risposte di governo adeguate al presente perché credo sia ineluttabile il fatto che “possiamo pianificare il nostro futuro con chiarezza e saggezza solo quando conosciamo il percorso che ci ha portato al presente”.  

Questa affermazione, contenuta in esordio del libro e poi ripresa a sintesi in retro di copertina mi pare esprima una consapevolezza storica e un bisogno non soddisfatto: “La questione meridionale irrisolta torna al centro della preoccupazione dello Stato italiano perché l’economia e la società non possono crescere se lo sviluppo non punterà a superare il divario tra le due grandi aree del Paese: la competitività del sistema economico non dipende soltanto dalla produttività delle imprese ma dall’efficienza dell’intero sistema di cui il Mezzogiorno è parte essenziale”. Quali sono le cause di questa mancata soluzione della questione meridionale che origina contestualmente al lungo periodo storico da Voi considerato e si ripropone ancora oggi come discrimine irrisolto?  

Vorrei ribadire che la Pandemia ha rivelato una condizione del nostro Paese più complessa e difficile da governare proprio per il permanere di uno sviluppo dualistico dell’Italia,  quella che da un secolo chiamiamo “questione meridionale”. Due dati che non possiamo cancellare. Primo dato: sarà molto difficile per il nostro Paese uno sviluppo sostenibile in una fase in cui la competizione internazionale richiederà una elevata produttività ed efficienza dell’offerta, dove ciò che, alla fine, prevarrà nella competizione sarà l’efficienza complessiva del sistema. C’è una ampia letteratura che convalida questa tesi e richiama in questo momento l’attenzione di chi deve definire una programmazione di medio periodo. È questa la ragione per cui la Commissione della Unione Europea richiede, con priorità, alcune riforme (amministrazione pubblica, istruzione e giustizia, per esempio), che gli investitori nazionali ed internazionali conoscono molto bene. Da molti anni sappiamo che le rispettive corporazioni sostengono che l’innovazione non consiste nel miglioramento della offerta del servizio ma nell’esclusivo consolidamento dei privilegi e delle posizioni di carriera di coloro che sono chiamati a fornire il servizio. Il secondo dato è costituito dal ritardo nel perseguire il riposizionamento del sistema produttivo italiano ed europeo  a seguito dei cambiamenti  internazionali; questione sollevata alcuni anni fa dal Governatore della Banca d’Italia, Ignazio Visco. Nell’esprimersi sugli effetti delle misure del Governatore della Banca Centrale Europea, Visco sottolineava che avrebbero avuto una maggiore efficacia in Italia se fossero state accompagnate da una chiara e coerente strategia di riposizionamento internazionale della nostra economia e società. Ma ritorniamo alle riflessioni sviluppate insieme a Zoppi: sono d’accordo con lei che è opportuno e anche necessario analizzare le ragioni per cui, dopo i primi venti anni di una efficace azione, insorsero difficoltà che progressivamente portarono al declino fino allo scioglimento della Cassa del Mezzogiorno. Con Zoppi abbiamo cercato di approfondirne le ragioni. Tra le tante ragioni che abbiamo analizzato, vorrei richiamare la sua attenzione e quella dei lettori su una questione e su un momento storico preciso che non viene ricordato.  Agli inizi del 1960 il Corriere della Sera aprì un confronto tra economisti e politici sui tempi dello sviluppo industriale del Mezzogiorno e sulle sue priorità. Vera Lutz, un’economista anglosassone, aprì il confronto portando una tesi, sostenuta anche dal Presidente della Confindustria in due convegni a Napoli e Palermo, agli inizi degli anni cinquanta.  All’inizio sembrava un confronto accademico ma, vista la autorevolezza del giornale e alcune significative convergenze, di fatto, portò a indebolire l’avvio del secondo tempo della politica per il Mezzogiorno: appunto l’espansione industriale al Sud. In estrema sintesi la Lutz sosteneva che avrebbero dovuto esserci due tempi: Il primo, puntare subito sulla concentrazione degli investimenti industriali e delle infrastrutture collegate al Nord accompagnata da un alleggerimento della pressione dei lavoratori, favorendo una migrazione dal Sud; il secondo: rinviando a dopo la industrializzazione del Mezzogiorno. La teoria dei due tempi venne a incidere negativamente sull’azione avviata da Pastore per lo sviluppo della industrializzazione che aveva pur dato risultati positivi, come abbiamo documentato con Zoppi. 

Partendo anche dalla Vostra esperienza personale, richiamate la figura di Giulio Pastore ex sindacalista, dotato di grande senso pragmatico e di visione strategica: lo collochiamo come Ministro – già dal 1958 nel Governo Fanfani-  e poi negli anni 60, che qualcuno ha definito “irripetibili”, un periodo di laboriosità, speranze collettive di ricostruzione del Paese, modelli sociali basati sulla cooperazione e ispirati ai principi della progettazione e della realizzazione di opere. Chiamato a presiedere il Comitato interministeriale per il Mezzogiorno. Citando due documenti definiti “sottostimati” , la prima relazione al Parlamento del 1960 e il Piano di coordinamento degli interventi pubblici del 1965, ne sottolineate a un tempo l’importanza strategica e la scarsa considerazione che ricevettero. Potevano conservare un valore di lungimirante programmazione: che cosa spense a poco a poco quella politica di pianificazione graduale? L’enfasi dell’intervento della “mano pubblica” o la suggestione del “miracolo economico?  

La fase della ricostruzione e di un periodo di sviluppo con un elevato saggio di crescita, dopo la seconda guerra mondiale, è oggi oggetto di nuove e rigorose riletture da parte degli storici. Con Zoppi pubblicammo, tre anni fa, una nostra riflessione sul decennio di Giulio Pastore alla Presidenza del Comitato per il Mezzogiorno 1958-1968, in un libro: “Non fu un miracolo”. Di quel decennio si era parlato come frutto di un miracolo italiano perché, in breve tempo, il Paese era diventato la quinta potenza economica tra i Paesi di più antica industrializzazione. L’Italia aveva adottato una politica di sviluppo con l’obiettivo di mantenere un alto tasso di crescita del PIL e della produttività. Sull’immediato finire della guerra, erano intervenuti gli aiuti ERP e, a seguire, i fondi del Piano Marshall e lo stimolo delle istituzioni multilaterali di Breton Woods. Una volta riconquistata la libertà e la democrazia, De Gasperi era preoccupato di una spaccatura del Paese che, oltre ad essere economica e sociale, diveniva politica. Già in occasione del referendum istituzionale del 1946 si erano manifestati movimenti antiunitari, qualunquisti e indipendentisti. De Gasperi si rendeva conto della urgenza di intervenire per dar corpo ad una coesione nazionale e radicare la democrazia nei ceti medi e nel sottoproletariato meridionale. La DC spingeva per rafforzare un pluralismo sociale aperto al cambiamento non solo nelle regioni del nord est e della Lombardia ma anche nel Mezzogiorno. Questo disegno richiedeva una incisiva politica per trasformare l’economia e la società meridionale. Per questo, De Gasperi affrontò una battaglia per procedere a espropriazioni di latifondi e alla creazione di una piccola proprietà di coltivatori diretti. A queste misure si accompagnavano quelle di riforma dei patti agrari e del collocamento pubblico dei lavoratori, provvedimenti che vanno letti con riferimento alle condizioni sociali nelle campagne. Ritornando da un viaggio in Basilicata con una tappa significativa a Matera nel rione dei Sassi, De Gasperi accelerò sulle riforme contadine (proprietà e patti agrari) e propose l’istituzione della Cassa per il Mezzogiorno, con l’obbiettivo della espansione al Sud di un apparato produttivo moderno e di una occupazione stabile. Con la legge dell’agosto del 1950, nasce la Cassa a cui viene affidata la realizzazione di complessi organici di opere pubbliche (il tempo delle infrastrutture), con una dotazione pluriennale (una Cassa per vincere lo scetticismo dei meridionali, assicurandoli che i soldi erano stati assegnati proprio a una cassa) con autonomia gestionale e con possibilità di impegnare tutto l’ammontare della dotazione dopo l’approvazione del Piano decennale (operazione realizzata in pochissimi mesi).  Si aggiunsero i prestiti internazionali della Banca mondiale e di Banche private su specifici progetti del piano, per assicurare la liquidità per gli stati di avanzamento della realizzazione delle opere. Pastore arriva verso la fine degli anni cinquanta è dà avvio al secondo tempo della industrializzazione. Collega le infrastrutture agli insediamenti industriali, punta alla realizzazione di poli di sviluppo come motori dell’innovazione. Si preoccupa di accompagnare le nuove realtà produttive con la formazione del fattore umano. Lei ha citato i due testi che documentano i progetti di Pastore e la concretezza delle realizzazione. Questi documenti vanno riletti oggi per capire come, anche nel presente, è possibile realizzare una programmazione e gestire, da parte dello Stato e in tempi rapidi, complessi organici di opere per unificare, a livello nazionale, le reti di infrastrutture moderne, sia materiali che immateriali. Ci sono ancora due documenti da ricordare e sono le due inchieste parlamentari sulla disoccupazione e sulla miseria.  

L’excursus storico della Vostra analisi è notevole e di lunga deriva: Cavour, De Gasperi e l’oggi, cioè Conte, anzi l’ieri, visto che ora si apre una prospettiva diversa sotto la guida di Mario Draghi. Come scrisse San Paolo viene il momento in cui è necessario cimentarsi in una ricapitolazione di tutte le cose. O come disse Ignazio di Loyola a un certo punto occorre mettere ordine nella nostra vita. La ruota della storia gira e propone scenari nuovi e ritorni al passato. Ma non Le sembra che in tutto questo incedere verso il futuro è qualche volta più gratificante soffermarsi sui ricordi che coltivare speranze che sembrano ingestibili?    

Abbiamo dato al nostro libro un titolo molto chiaro e al tempo stesso molto difficile: “governare l’Italia”, e per questo nel sottotitolo abbiamo indicato tre significativi momenti della storia italiana con riferimento a tra diversi modi di gestire la cosa pubblica. Governare è scegliere,  diceva nel 1953 Pierre Mendes France alla vigilia del referendum francese sulla Comunità Europea di Difesa. I tre momenti della storia del nostro Paese a cui facciamo riferimento sono: il governo della formazione della unità politica del nostro Paese sotto la corona nel Regno di Sardegna nell’autunno del 1860, il governo della ricostruzione e dello sviluppo dell’Italia dopo la seconda guerra mondiale e la riconquista della democrazia liberale e il governo della attuale fase della pandemia del Covit19 e delle terribili conseguenze economiche, sociali ed umane che ne sono scaturite. Tutte e tre questi momenti hanno bisogno di essere analizzati alla luce non solo del contesto della società nazionale ma anche del contesto internazionale per capire in che misura hanno influenzato e condizionato la sovranità dei diversi governi nazionali. Con il nostro lavoro offriamo alcuni materiali importanti per leggere l’evoluzione della questione meridionale con più rigore e approfondire i punti di forza e le criticità generati da quei governi. Questa conoscenza diventa oggi indispensabile per il governo della fase post Covid19. Per affrontare oggi una ricostruzione con una riconversione tecnologica (digitale) e una riconversione verde non possiamo prescindere anche da un riposizionamento dell’Unione Europea e del nostro Paese, e il che significa che dobbiamo tener conto dei vincoli del contesto esterno.  L’Europa, a Maastricht, nel 1992, non prese in considerazione della possibilità né di una crisi economica come quella del 2008 né delle sfide delle rivoluzioni tecnologiche, ambientali e demografiche. Quando scoppiò la crisi del 2008, l’Europa pensò esclusivamente a far funzionare i vincoli di bilancio. Mario Draghi ha vissuto questa fase della vita europea e ha lottato per immettere liquidità nel sistema finanziario e oggi è chiamato a negoziare e gestire un progetto europeo che guarda alla next generation e a ricostruire e sostenere il cambiamento del sistema economico produttivo per una fase di crescita. Giuste le sue citazione di San Paolo e Sant’Ignazio. Il cambiamento e il riposizionamento da perseguire non sono operazioni superficiali perché coincidono, come ha detto Draghi, con transizioni tecnologiche e ambientali che mettono in discussione equilibri sociali e politici secolari. Io concordo con lei che bisogna avere una chiara visione di quello che abbiamo vissuto e dobbiamo guardare oltre la siepe per poter dare al nostro futuro basi solide e visioni che vadano oltre i sondaggi di opinione. 

Lo scenario in cui Vi muovete per descrivere l’evoluzione e i mutamenti della società italiana considera implicitamente il dato della contestualizzazione. Eppure qualche gg fa Draghi presentando il suo Governo alle Camere ha fatto esplicito riferimento a valori Risorgimentali: l’unità del Paese, l’idea repubblicana, la sacralità delle istituzioni. Ci sono delle peculiarità che possono descrivere il percorso della storia da voi delineato? Quanto hanno pesato le ideologie, quanto per Lei ha significato compiere la scelta di adesione ai principi del cattolicesimo sociale? De Gasperi poteva cercare di governare dal centro ma optò sempre per una politica delle alleanze, che allargava il campo degli orizzonti e delle visioni strategiche. Oggi, in questo Parlamento parcellizzato, dove i partiti esprimono una concezione personalistica e proprietaria della politica, c’è ancora spazio per il centro? Siamo passati dal bipartitismo imperfetto al bipolarismo imperfetto per finire in quella che De Rita chiamerebbe mucillagine fatta di individualità e assenza di una visione super partes del bene comune. Quali scenari futuri descrive un uomo che come Lei ha una lunga esperienza di fede e di militanza politica?

Questa domanda è estremamente complessa e richiede di soffermarci brevemente sulle singole questioni sollevate. Nell’analisi storica i singoli fatti vanno contestualizzati per poterne comprendere il senso e la portata. Draghi ha giustamente fatto riferimento ai valori Risorgimentali che sono componenti del progetto di coesione e di unificazione politica di Cavour e sono parte della coscienza nazionale. La partecipazione organizzata dei cattolici alla vita politica italiana, dopo il superamento del ‘non expedit’, è caratterizzata dalla affermazione dei valori della persona e dei diritti di libertà e sociali, della famiglia e dei corpi intermedi della società. I limiti all’uso della proprietà dei beni fanno parte di una concezione di un capitalismo sociale di mercato. Nella divisione bipolare del mondo tra capitalismo e comunismo, la presenza dei cattolici si caratterizzò per il contributo alla elaborazione della Costituzione. Vorrei ricordarle l’articolo 3 della Costituzione che non solo assicura ai cittadini i diritti di libertà ma stabilisce anche l’obbligo della “Repubblica di rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori alla organizzazione politica, economica e sociale del Paese”. Rimuovere gli ostacoli da parte della Repubblica è quello che distingue la Costituzione della Repubblica dallo Statuto Albertino. Passo alla seconda domanda sulla politica e sul modo di governare della Democrazia Cristiana. De Gasperi, pur avendo ottenuto la maggioranza assoluta dei seggi in Parlamento alle elezioni del 1948, decide di formare una coalizione sulla base di una convergenza politica con i partiti di tradizione laica e socialdemocratica: le formazioni liberali e risorgimentali e il socialismo di Turati. Questa scelta non fu accolta positivamente dalla giovane generazione democristiana che riteneva necessario che la DC dovesse assumersi la responsabilità esclusiva del governo. Essa formò oggetto del dibattito del Congresso di Trento della Democrazia Cristiana. Con un salto, lei arriva al tempo presente cioè a trenta anni dalla scomparsa della Democrazia Cristiana. La cosiddetta seconda Repubblica è nata con la proposta di modificare la Costituzione sul punto cardine dell’assegnazione proporzionale dei seggi in parlamento in base ai voti ottenuti da ciascun partito politico presentatosi alle elezione. In questi circa trenta anni si è pensato che fosse possibile, con una legge elettorale, arrivare ad una Repubblica basata su un sistema maggioritario per avere un governo bipolare o bipartitico. Le vicende di questi anni, nonostante le tante leggi maggioritarie, approvate quasi tutte alla vigilia di una campagna elettorale, non hanno fatto raggiungere l’obiettivo. La scelta maggioritaria implicava, inoltre, una drastica riduzione nel numero dei partiti politici. Ma, nei fatti, il numero dei partiti è aumentato con velocità esponenziale rispetto alla prima repubblica. Nel corso delle legislature moltissimi parlamentari eletti in una lista ne sono usciti e di fatto hanno formato altri gruppi parlamentari. Il dettato costituzionale che stabilisce che il parlamentare non ha vincolo di mandato non significa che sia politicamente e moralmente accettabile – anche se legittimo – che chi viene eletto in una lista di partito o movimento possa poi possa uscirne e, magari, creare un nuovo gruppo/partito che l’elettore non ha mai conosciuto e per il quale non ha votato. Per non parlare del caso di un movimento, promotore di un sistema bipolare, che si era impegnato a un mandato a governare senza costituire mai una coalizione con l’avversario e che ha fatto saltare questo impegno nel giro di poche settimane, formando una coalizione di governo proprio con un avversario alle elezioni. D’altra parte una coalizione richiede una ragione politica comune cioè una coesione politica. Per raggirare tale principio, si è fatto ricorso allo strumento “tutto privatistico” di un contratto di governo con un elenco di provvedimenti da portare avanti, proposti dai singoli “contraenti”.   

Oltre gli eventi, le persone, le idee che Voi minuziosamente annotate nel Vostro libro resta tuttora inesprimibile una spiegazione convincente sulla mancanza di una visione unitaria, lungimirante e di coesione del Paese: perché- in fondo ad ogni scenario che si possa configurare – permane il gap del Mezzogiorno come icona di una lunga querelle che esprime interpretazioni assoggettate ai vincoli del relativo e dell’insolubile? C’è un Paese che viaggia a due velocità: nelle infrastrutture, nei servizi, nella concezione dello Stato. Non credo all’anno zero ma sento parlare di una svolta: la ripartenza verde, il connubio tra ecologia e digitalizzazione, la riconversione economico. Forse abbandonando ogni forzatura di omologazione culturale la vera via della rinascita del Sud passa attraverso la valorizzazione delle sue peculiarità, del genius loci? Il nostro è un Paese di forti radicamenti: si possono conciliare conservazione e innovazione, traditio e ratio?

Sia nel saggio precedente (“Non fu un miracolo”) oltre che in questo ultimo, le riflessioni con Zoppi sono approdate ad una conclusione unanime. C’è una fase iniziale, dopo la fine della guerra a partire dal piano Marshall fino alla nascita della Cassa per il Mezzogiorno e per quasi un trentennio, in cui c’è stata una diffusa convinzione che il superamento della storica questione del Mezzogiorno non fosse legata solo alla mancanza di investimenti nel Mezzogiorno ma a un necessario cambiamento delle politiche nazionali per renderle coerenti con l’obiettivo della unificazione economica del Paese. E questo convincimento, pur con intensità diverse, è stato sempre presente. La struttura della politica meridionale ha sempre poggiato su questa convinzione e ha animato la politica sia della maggioranza che della opposizione. A rileggere i diversi programmi dei partiti, pur nella asprezza dello scontro tra i due blocchi in cui era diviso il mondo, si ritrova una documentazione importante, anche perché le criticità che hanno portato al declino della politica di sviluppo del Mezzogiorno hanno, al centro, la divaricazione degli interessi delle due grandi macroregioni del Paese. Oggi, che dobbiamo affrontare una ricostruzione del sistema economico e sociale, si rivela l’importanza della coesione e dell’unità del Paese. Senza una visione e una strategia unitaria dello sviluppo nazionale non credo sarà possibile uscire dalla crisi sanitaria ed economico-sociale. Teniamo conto di due dati: le regioni del Nord, che hanno trainato lo sviluppo dell’Italia, hanno – negli ultimi anni – registrato una sensibile decrescita e il loro futuro passa necessariamente per il Mezzogiorno cioè da quella prospettiva per l’Europa che nasce dalla sua crisi demografica e a cui si contrappone la crescita dell’Africa e la esplosione già oggi dei traffici Mediterranei 

Credo che fondamentalmente il Paese avverta il bisogno di una nuova classe dirigente. Lo stesso Draghi ha suggerito il know how del decisore politico: conoscenza, coraggio, umiltà (lectio magistralis alla Cattolica – 18/08/2020) . Mi consenta un pessimismo di fondo: non ho mai aderito in toto all’idea della casta ma avverto una resistenza al nuovo. La politica vive di yes man e di rendite di posizione. Leggevo qualche gg fa la composizione del Governo canadese: ogni ministro occupa un dicastero in virtù di requisiti maturati per esperienza e competenza professionali. Da noi – dalla Prima Repubblica ad oggi – non è mai stato così: abbiamo vissuto più sui talenti dei pochi (Cavour, Einaudi, De Gasperi, Moro, Fanfani, Nenni, La Malfa, Pertini ecc) che sul gioco di squadra e sulle regole di questo gioco. Dopo la stagione della polverizzazione delle ideologie e di Tangentopoli è subentrato un pressapochismo disarmante, c’è stata una enorme perdita sul piano culturale. Se la politica non esprime fondamenti culturali  non può generare un solido progetto politico. Ce lo ricorda Max Weber, il suo  ‘beruf’  è un mix tra essere, fare, saper fare, costruire esperienza. Lei pensa che Draghi ce la farà a governare confidando sulla  coesione del Parlamento?

La questione della classe dirigente è sempre stata centrale nella questione meridionale, ma in questo caso è divenuta assolutamente determinante. Al Congresso del mio Partito, nel 1984, presentando la mia candidatura alternativa a quella di De Mita, dopo la sconfitta alle elezioni dell’anno precedente, chiesi una pausa di riflessione. Dovevamo, innanzitutto, sforzarci di leggere il cambiamento della economia e della società perché stavamo dando una risposta sbagliata, cercando di cooptare classe dirigente dalle Università, dalle imprese e dal sindacato (quelli che chiamammo gli esterni prestati alla politica). La crisi era del logoramento del rapporto tra il ceto politico e le espressione del pluralismo della società. Da una parte la società rivendicava spazi di autonomia e di autogoverno, contestando il monopolio della politicità da parte di un ceto, e chiedendo di governare con la società. Nel giro di un decennio il ceto politico sarebbe stato percepito come una casta. Non si trattava di aumentare il tasso di tecnicismo e di tecnici prestati alla politica. Il politico era chiamato a governare cioè a scegliere assumendosi la responsabilità delle proposte e su quelle costruire il consenso e la coesione. La crisi della classe dirigente nasceva dalla rottura del rapporto con la scienza e gli scienziati, con la tecnica e quindi con i tecnici e con la cultura. I ministeri si erano riempiti di consiglieri del principe che diventavano governanti. Queste sono le lezioni di Max Weber sulla professione dello scienziato e del politico. Draghi riuscirà con il suo governo se saprà governare, se saprà essere un politico cosciente di essere in una democrazia rappresentativa e, quindi, saprà tener insieme i Parlamentari. De Gasperi seppe vincere sulla opposizione della sinistra e sulla opposizione interna dei professori. E, alla fine, ebbe ragione come mi dichiarò un giovane storico che lo aveva contrastato. Il traguardo oggi non è quello di accrescere il grado di cultura tecnica, ma quello di cultura politica perché qui sta la grave carenza. 

La moderazione in politica non va confusa con il moderatismo: questo sta alla prima come l’impotenza sta alla castità: ce l’ha insegnato un uomo integro e coerente come Mino Martinazzoli. Essere moderati non significa accontentarsi della mediocrità: al contrario vuol dire avere una visione composita e dialogica dei rapporti sociali, finanche personali, poiché la politica deve entrare con moderazione e spirito di servizio nella nostra vita, perseguire l’equità, l’interlocuzione e il godimento dei beni comuni. Come si può esprimere il valore della moderazione nel contesto politico attuale?

Il massimo del riformismo si è realizzato nel periodo cosiddetto centrista. Sono convinto per questo della sua osservazione. Miriam Mafai, una personalità della sinistra del nostro Paese, compagna di Pajetta, scrisse – negli anni sessanta – un saggio sul breve governo Fanfani, dopo quello di Tambroni e fino alle elezioni del 1963. Lo giudicò come il più incisivo nell’innovare. La mediocrità è certamente una altra cosa come diceva Mozart. Lei descrive bene l’uomo di governo di cui avremmo bisogno oggi. 

In occasione della vigente crisi pandemica l’Italia ha espresso una peculiarità tutt’affatto positiva nelle gestione dei vari settori della vita pubblica, a cominciare dalla Sanità, dalla Scuola, dalle infrastrutture, recentemente acuita dalle zone colorate, dai lockdown nazionali e locali: mi riferisco all’emergere di un rapporto conflittuale tra lo Stato e le Regioni. La regionalizzazione come decentramento autarchico ha manifestato aspetti positivi ed elementi di forti diaspore. I presidenti delle Regioni si sono autoproclamati Governatori, sul modello USA, e volendo esercitare in maniera diretta un controllo del territorio (per certi aspetti legittimo) hanno contribuito ad amplificare il fenomeno della personalizzazione della politica. In un contesto istituzionale dove i corpi intermedi vanno scomparendo si profila il permanere, forse l’acuirsi del contenzioso tra centro e territori. Come possiamo immaginare un’Europa più incisiva e potenziata –quella pensata dai padri fondatori come De Gasperi, Schuman, Monnet , Adenauer – se c’è confusione e sovrapposizione di ruoli tra Stato ed Enti locali, fino a compromettere l’idea stessa di unità nazionale? Secondo Lei anche questo divarica la forbice tra nord e Sud, complicando la “questione meridionale”?

I problemi su cui mi chiede l’opinione vanno affrontati con estrema concretezza. Le rispondo in modo sintetico. Mi riferisco all’ordinamento che oggi esiste dopo la riforma del titolo Terzo della costituzione. Noi non siamo un Paese federale, i costituenti avevano previsto la nascita di regioni a statuto ordinario e straordinario, garantendo l’unità dell’indirizzo nazionale e la fornitura di stessi servizi a tutti i cittadini. La riforma del titolo V della Costituzione porta a un ordinamento ambiguo e confuso che ha dato luogo a litigiosità e inefficienza. Mi consenta un rilievo: le regioni così come pensate dai costituenti avrebbero dovuto creare un nuovo modello di amministrazione, lontano dal modello dell’amministrazione dello Stato accentrato. Dovevano essere più vicini ai cittadini e coinvolgere il pluralismo della società nell’amministrare. Questo è uno dei nodi del Recovery Plan ed è il più complesso da manovrare. 

Il concetto di “stabilità” (abbiamo avuto 68 Governi dal dopoguerra ad oggi) è propedeutico a qualsivoglia modello di sviluppo sociale, all’idea stessa di progresso anche nella accezione più moderna e attuale di “riconversione ecologica ed economica”. Ciò comporta un sistema elettorale che assicuri continuità democratica. Le abbiamo provate tutte: Lei pensa – dopo una così lunga e prestigiosa esperienza politica – ad un modello elettorale che garantisca stabilità?

 La questione è politica. Come le ho detto la stabilità non la si trova con una legge elettorale e neanche con una elezione diretta del Presidente del Consiglio o altre diavolerie simili. La storia di questi circa trenta anni ci ha dimostrato che De Gasperi ha presieduto otto governi diversi e ha assicurato la migliore stabilità. Le coalizioni erano tenute insieme non da un contratto ma, come ho sottolineato prima, da una ragione politica che riusciva a tenere insieme e governare con forze politiche i cui programmi erano a volte fortemente divergenti. Pensi a tutte le leggi sulla questione agraria. Se non cresce una cultura di coalizione non si riesce a portare i riottosi nel recinto. In una democrazia rappresentativa il ruolo dei partiti è essenziale non per distribuire potere del sottogoverno e degli apparati pubblici non statali (cresciuti in modo incredibile a tutti i livelli e crescendo hanno moltiplicato la burocrazia) ma per concorrere a governare. 

 

 

*Vincenzo Scotti  Laureato in Giurisprudenza con lode alla Sapienza, dopo un periodo alla Gioventù cattolica con Carretto e Rossi presidenti e poi alla Cisl responsabile di un ufficio per il Mezzogiorno, ha collaborato con Giulio Pastore prima come capo della segreteria tecnica e Segretario Generale del Comitato dei Ministri per il Mezzogiorno. Eletto deputato nel 1968  ha compiuto un lungo percorso nelle più alte istituzioni dello Stato, essendo stato più volte Ministro (tra l’altro del Lavoro,  dei Beni culturali, degli Interni e degli Esteri) e Sottosegretario al Bilancio.  Nel 1990/1992 ha presentato d’intesa con Martelli e con Giovanni Falcone un complesso di leggi antimafie (tra cui l’istituzione della  DIA e della DNA) E’ stato vice segretario del Partito della DC, Presidente del gruppo parlamentare della DC e Sindaco di Napoli. Ha collaborato con Mario Romani e poi con Giulio Pastore alla rivista Il Nuovo Osservatore prima come vice e poi come direttore. Ha insegnato economia dei paesi in via di sviluppo alla LUISS per oltre venti anni. È stato fondatore e presidente della Università degli Studi Link Campus University.