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giovedì, Marzo 13, 2025
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Europa, vincere la pace alla luce del pensiero di Jacques Maritain.

Adesione all’iniziativa lanciata da Michele Serra.  Un nuovo modo di concepire la società in generale, e specificamente quella del Vecchio Continente. Alcuni dei fondatori dell’Istituto J. Maritain (1973-1974) riflettono qui sulle prospettive dell’europeismo.

Ci sentiamo di aderire all’Appello pubblico di Michele Serra “Una Piazza per l’Europa”: per il modo in cui è stato espresso (la pacatezza) e per i destinatari a cui è rivolto (i cittadini). E’ importante che si faccia riferimento all’Europa a prescindere dagli orientamenti partitici e chiedendo invece il coinvolgimento dell’opinione pubblica: ad essa si rivolge l’Appello, e da essa ci si aspetta una reazione non di “pancia”, ma di “testa”, una testa non disgiunta dal “cuore”. E’ richiesta, insomma, una “ragione appassionata”, starei per dire “innamorata” dell’Europa, della civiltà di cui è espressione e di cui si apprezza il valore senza nascondersene i limiti, Così l’Appello ha una portata generativa: vuole scuotere, mettere di fronte alla situazione: non per “contemplare”, bensì per “trasformare” la situazione in cui ci troviamo, e trasformarla -ecco il punto- in maniera inedita, cioè tale che non ricalchi atteggiamenti del passato o non imiti atteggiamenti assunti da altri; si tratta di abbeverarci alle fonti originarie, facendole reagire alle res novae.

Viene allora alla mente la riflessione che, giusto ottant’anni or sono, Jacques Maritain faceva e che possiamo sintetizzare in una espressione: “vincere la pace”, per dire che non basta sospendere le ostilità o fermare la guerra, occorre guadagnare la pace, meritarsela. Maritain ne parlava in quell’aureo libretto che è Cristianesimo e democrazia del 1943 e lo ribadiva nel discorso all’Unesco del 1947, intitolato originariamente “La via della pace” e successivamente precisato come “Le possibilità di cooperazione in un mondo diviso”, per dire che la pace è essenzialmente “pacificazione”, vale a dire non un ideale astratto o una condizione statica, ma un “ideale storico concreto” da cogliere nel suo dinamismo effettuale. Dunque, una pace attiva, perché attivo è il modo per arrivarci e attivo è il modo per mantenerla. In altre parole: una pace che è frutto di fortezza e non certamente di forza né altrettanto certamente di ignavia. Una posizione, questa, che Emmanuel Mounier aveva chiarito nel suo saggio su I cristiani e la pace, denunciando tanto il bellicismo della violenza, quanto il pacifismo della inerzia: due impostazioni che, a ben vedere, fanno riferimento a distinzioni temperamentali e sociali, mentre la pace è costruzione all’insegna della ragionevolezza etica, delle mediazioni politiche e finanche delle compromissioni pratiche, senza mai cedere al moralismo e alla retorica.

La pace come pacificazione è frutto di una conquista che impegna in termini di eroismo nella quotidianità, direbbero Maritain e Mounier, due esponenti di quel personalismo comunitario che ha avuto in Europa altre voci non meno significative come quelle di coloro che direttamente e indirettamente hanno contribuito a fare l’Europa. Oggi, in presenza di un pragmatismo montante, queste figure possono sembrare datate, mentre possono fruttificare ancora, a condizione che non si voglia ripetere Maritain e i “non conformisti degli anni Trenta”, ma ripeterne piuttosto il problema, per dire che a quegli autori non tanto si deve “tornare” quanto da essi si deve “ripartire”.

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