Sono passati 47 anni dalla morte di Aldo Moro. Cosa resta oggi di quella tragedia nel cuore della democrazia italiana?
Resta un senso di incompiutezza e di smarrimento, ma anche un patrimonio immenso. Moro non fu solo una vittima del terrorismo: fu un uomo che seppe leggere i segni dei tempi con spirito profetico. Pensiamo al suo intervento all’ONU, quando deprecò l’insufficienza di un mondo diviso tra chi scrive la storia e chi la subisce. Lì invocò un ruolo più forte delle Nazioni Unite, capace di presidiare la speranza e la volontà di pace. Allo stesso tempo, non possiamo dimenticare il suo impegno per un’Europa politica più forte e incisiva. Sono idee che parlano al nostro tempo, forse più di quanto seppero fare con il loro.
Quali altri elementi della sua azione ritiene oggi più attuali?
Insisto sull’Europa, perché viviamo un momento dominato dall’ansia di capire quale sia il futuro dell’Occidente e il ruolo dell’Unione nel processo di riordino mondiale. Il suffragio universale per l’elezione del Parlamento di Strasburgo fu una sua battaglia. Credeva in un’Europa capace di contare, in particolare in politica estera e di difesa. E poi il suo sguardo sul Mediterraneo: lo definiva il “giardino dell’Europa”, anticipando di decenni una visione geo-politica che oggi chiamiamo “strategica”. La Pira parlava di “ponte tra i popoli”, Moro di sicurezza e dialogo tra Nord Africa, Medio Oriente ed Europa. Due linguaggi diversi, un’unica radice cristiana della politica. Il nuovo Papa, Leone XIV, ha salutato Roma e il mondo parlando dalla Loggia delle Benedizioni proprio della necessità di “costruire ponti”.
Secondo lei, perché Moro fu ucciso? Chi aveva interesse a fermarlo?
Moro era scomodo. Lo era per l’Est e per l’Ovest, perché metteva in discussione l’equilibrio di Yalta. Vedeva l’urgenza di un processo di rigenerazione democratica, quello che in parallelo vedeva Berlinguer con la sua strategia dell’eurocomunismo. Senza fraintendimenti, possiamo certamente riconoscere il destino incrociato di questi due grandi leader. Come si spiega, altrimenti, il tentato assassinio di Berlinguer in Bulgaria, anni prima, e il silenzio attorno a quella vicenda? Erano voci che disturbavano un ordine precostituito. In ogni caso, dopo la barbara eliminazione di Moro, ci fu una “sindrome da depistaggio per esagerazione”: la scena del crimine fu alterata, le indagini confuse, le omissioni più d’una e tutte pesanti.
La Commissione che lei ha presieduto ha portato alla luce molte verità inedite. Quali sono quelle che ritiene più rilevanti?
Che le Brigate Rosse non erano un gruppo isolato. Erano parte di un network terroristico internazionale. La Commissione ha portato alla luce vari elementi che lasciano intendere come a Via Fani, e poi nei 55 giorni della prigionia, fossero attive alcune forze occulte. E poi non trascuriamo le similutini riscontrabili nelle azioni di gruppi come la RAF in Germania. Ci sono state reticenze, mancate collaborazioni, verità che qualcuno ha preferito tacere. Le testimonianze di chi trattava, anche informalmente, sono lì a dimostrarlo.
A proposito, cosa possiamo dire, a distanza di molti anni, a proposito della cosiddetta linea della fermezza? È stato giusto il rifiuto della trattativa?
Si parlò di fermezza, ma tutti sapevano che molti, in primis i socialisti e Craxi apertamente, cercavano interlocuzioni. Lo stesso Moro, con la forza della parola, cercava di dividere la colonna romana da quella del nord, depositaria di una ortodossia criminale che decreterà la sua condanna. C’erano contatti, si cercava uno scambio, si pensava a un gesto umanitario. Il Presidente Leone, travolto mesi dopo da una campagna diffamatoria senza fondamento, era pronto a firmare la grazia della brigatista Paola Besuschio. Non ci fu il tempo. Anche Vaticano tentò di aprire un varco mettendo a disposizione una cifra considerevole in cambio della liberazione dell’ostaggio. E Paolo VI non si mosse senza una intesa di massima con i vertici dello Stato e del governo italiano. Niente, tutto risultò vano. Ci fu persino un tentativo di mediazione a Beirut: esistevano delle possibilità, trattando con l’Olp, ma non furono colte. O vennero bloccate, ancora non sapiamo da chi, ma di certo intuiamo il perché. L’uomo che tirava i fili di una politica destinata a cambiare l’Italia e con ciò, in parte, a cambiare il mondo, era diventato un “nemico”. Specie nel contesto, sempre difficile, del Mediterraneo. Insomma, centri di potere opachi alla fine ebbero il sopravvento.
Moro parlava spesso della necessità di riscrivere la democrazia. Cosa intendeva davvero?
Moro era convinto la Costituzione, intangibile nella sua forma, aveva tuttavia bisogno di una profonda rigenerazione attraverso un nuovo patto democratico. I padri costituenti avevano costruito un edificio solido, ma si sa che il tempo logora anche le fondamenta quando manca il lavoro di manutenzione. Moro andava anche oltre la stessa manutenzione, ambiva a un traguardo più impegantivo, ovvero a ricomporre il tessuto morale e civile della nazionae. Cosa significava la politica del confronto e la strategia della Terza Fase? Ecco, fare di Moro un “compagno di strada” di Berlinguer è francamente inaccettabile. Il compromesso storico non rientrava neppure nel suo linguaggio: temeva la compressione e quindi lo svilimento, per questa via, della vita democratica, la mortificazione del pluralismo, la perdita di energia e di sostanza della libertà. Tuttavia, il suo disegno mirava a far sì che i due “mondi politici” divisi dalla guerra fredda, quello democristiano e quello comunista, potevano finalmente tornare ad incontrarsi, ciascuno con i propri valori e la propria identità, per costruire un “tempo nuovo” della Repubblica. Ne sarebbe nata una democrazia pià matura e più libera, con una sana dialettica tra maggioranza e opposizione, in effetti emancipata dalla “conventio ad escludendum” applicata al Pci, ma non per questo inghiottita dalla confusione tra cattolici e comunisti. Insomma, una visione ardita, troppo ardita per l’epoca e troppo alta per l’oggi. Diciamo la verità, ai giorni nostri quella capacità di riconoscere l’altro, di dialogare per un bene superiore, di rispettarsi a vicenda sembra largamente inficiata da un istinto di radicalizzazione che nuoce alla vita democratica.
E se potesse parlare ai giovani di oggi? Cosa direbbe Moro?
Direbbe probabilmente che la pazienza della parola, l’attitudine a comprendere le ragioni di chi non la pensa come noi, la volontà di tenersi per mano – mi si passi questa espressione – non sono inutili corollari della politica democratica, bensì il più fecondo e decisivo sostegno a cui essa può affidarsi. Direbbe ancora che la politica non può fare a meno della persona, non essendo l’ideologia, ma nemmeno la postideologia, la gabbia dentro cui rinchiudere le aspirazioni e i bisogni dell’umanità. Direbbe a noi tutti, e di questo sono profondamente certo, che l’impegno pubblico in nome di un ideale ispirato ai valori del Vangelo non è un labile ricordo del passato, ma piuttosto la sfida che interroga i cristiani in questo tempo di grandi cambiamenti. Moro, a mio giudizio, ci richiamerebbe al dovere della cooperazione – le alleanze sono essenziali – per un mondo migliore senza però disperdere o impoverire il connotato della nostra visione politica.