Nel dibattito politico italiano filtra una duplice intenzione che interessa e riguarda la responsabilità delle forze di antica e autentica radice democratica. Ci si interroga sul futuro della destra dopo che essa, superando la condizione di minorità cui soggiaceva anche nel contesto del berlusconismo, ha conquistato la guida del governo. Da un lato, tra i più intransigenti degli oppositori, si cerca di identificare la ragione ultima e definitiva per dare scacco matto alla Meloni, superando la parentesi della sua gestione di potere e rigettando la compagine di Fratelli d’Italia ai margini della vita democratica; dall’altro, specificamente nel campo dei riformisti, si contempla la prospettiva della “stabilizzazione costituzionale” del ruolo della destra, in qualche modo aiutandola, anche senza collaborare organicamente con essa, a riposizionarsi in un ambito di sano conservatorismo di stampo europeo.
In questa logica il sistema dell’alternanza perderebbe gli aspetti più deteriori che ne hanno alterato il significato e il valore allorché, sulla scia di eventi epocali come la caduta del Muro di Berlino nel 1989, anche in Italia si è giunti al superamento della democrazia bloccata. Ciò è avvenuto attraverso quella controversa rivoluzione condotta platealmente dai magistrati di Mani Pulite, il cui esito è stato il crollo dei partiti e la dissipazione delle culture democratiche. Ancora ne stiamo pagando i costi. Infatti, il carico di ambiguità e distorsioni della cosiddetta seconda repubblica costituisce, a sua volta, l’antefatto della odierna condizione di spaesamento di una pubblica opinione sempre più consapevole dei guasti provocati dal bipolarismo “a corso forzoso”, per il quale la funzione del centro, vitale e decisiva nella storia dell’Italia, perde il suo mordente.
È su questo sfondo che pare inserirsi la manovra di una prossima convergenza al centro della stessa Meloni. Se ne parla come di una necessità, anche urgente, dovendo la Premier misurarsi con le dinamiche di un’Europa che anche dopo il voto di giugno a buon conto vedrà confermata l’intesa tra popolari, socialisti e liberaldemocratici, senza la benché minima concessione all’ala radical-sovranista (Le Pen, AfD, ecc…), e forse nemmeno a quella dei nazionalisti (FdI, Vox,ecc…). La sensazione è che la Meloni sia prigioniera del suo gioco, della sua maggioranza, del suo passato: l’idea che possa lanciare l’operazione di una “Fiuggi 2” scivola giorno dopo giorno sul selciato delle buone intenzioni. Al vertice prevale lo stallo, l’unica prospettiva di movimento si staglia in un orizzonte diverso, lontano dai Palazzi del potere centrale.
Nel Lazio, ad esempio, l’esperienza del Presidente Francesco Rocca registra la ‘contaminazione’ di forze moderate, legate al mondo del civismo, alle quali verrebbe naturale disporsi sul terreno di una diversa articolazione dell’attuale destra-centro (con una modifica strutturale equivalente a un potenziale ribaltamento). Molto però dipende dalla spinta diretta o indiretta che serve a produrre un’iniziativa adeguata, e quindi da ciò che lo stesso Rocca vorrà o potrà fare da qui in avanti. A dispetto del suo passato, ombreggiato da giovanile estremismo, l’uomo si muove con la preoccupazione di rimodulare una politica che proprio l’esercizio dei compiti di governo spinge verso regole di moderazione ed equilibrio. Il contrario, cioè, di quanto prospettato dalla recente sortita di Alemanno, confusa e ambigua sì, ma in grado comunque di erodere consensi sul fronte dei nostalgici della Fiamma di Almirante. Insomma, quello che non può fare il cerchio magico di Palazzo Chigi e Via della Scrofa, in sostanza per trasformare la destra in un contenitore moderato, si mostra come un’occasione formidabile per il Presidente della Regione Lazio.
Gli occhi di amici e non amici sono puntati su di lui.