Giancarlo Caselli: Mafia e politica da Portella della Ginestra a oggi

Intervista realizzata con il Magistrato Giancarlo Caselli. E' stato giudice istruttore a Torino, ha guidato la Procura della Repubblica di Palermo subito dopo le stragi del 1992 contro Falcone e Borsellino, quindi è stato Procuratore Generale e Procuratore della Repubblica di Torino. Attualmente dirige l'Osservatorio di Coldiretti sulla criminalità nell'agricoltura e sulle "agromafie"

Nel recente libro “Lo Stato illegale” scritto con il Suo  collega Guido Lo Forte, la mafia è definita “un sistema di potere criminale”. Non un fatto di folclore, ne’ una somma disarticolata di episodi di sangue, ma una trama, un disegno, un organigramma minuzioso. Viene subito da chiedersi: perché il Sud, insieme a n’drangheta e camorra,  e perché la Sicilia? Partendo da un radicamento territoriale tutto sommato circoscritto – “Cosa nostra” – come si è giunti ad un fenomeno che travalicò i confini regionali e impose un modello malavitoso strutturato e internazionale?

Rispondo citando un passo dell’intervista (“Come combatto contro la mafia”, in “la Repubblica”, 10 agosto 1982), che Giorgio Bocca  fece al gen. Carlo Alberto Dalla Chiesa (allora prefetto di Palermo)  trucidato dalla mafia pochi giorni dopo, il 3 settembre. Dalla Chiesa, uomo “programmato” per la repressione nel rispetto delle regole – non dice che per sconfiggere la mafia ci vogliono manette e ancora manette, ma altro: “Ho capito una cosa molto semplice ma forse decisiva; gran parte delle protezioni mafiose, dei privilegi mafiosi caramente pagati dai cittadini non sono altro che i loro elementari diritti. Assicuriamoglieli, togliamo questo potere alla mafia, facciamo dei suoi dipendenti i nostri alleati”. In altre parole, se i diritti fondamentali dei cittadini non sono soddisfatti, i mafiosi li intercettano e li trasformano in favori che elargiscono per rafforzare sempre più il loro potere. Così la mafia vince sempre. I mafiosi ne sono ben consapevoli. E la gente non fa certo quadrato con lo Stato. Anzi, cresce il “consenso” alla mafia. Ciò è storicamente accaduto soprattutto al Sud e in Sicilia e spiega il radicamento delle mafie in tali aree. Quanto al travalicamento dei confini regionali, uno dei tanti fattori sta nella convinzione dello storico Salvatore Lupo, secondo cui  c’è una “richiesta di mafia” nella società italiana, in settori della società civile, dell’imprenditoria e della politica, del sistema finanziario ed economico internazionale e di certi poteri costituiti. Per il resto, nell’arco dell’intero libro ( che ho scritto per Laterza, insieme a Guido Lo Forte) si cerca di rispondere alla domanda.

La genesi del fenomeno mafioso, come modus vivendi e modus operandi affonda le radici nel processo stesso di unificazione del Paese, quindi nel periodo Risorgimentale. Nel Vostro libro evidenziate come la trama narrativa  non sia la storiografia della mafia ma la descrizione del suo porsi come fatto sociale, politico, culturale strettamente interconnesso fino ai giorni nostri con la cd. “questione meridionale”. Il forte radicamento territoriale si configura nel secolo scorso, quasi parallelamente agli eventi della Storia. Quando avviene il salto verso una dimensione mondialistica?

Della dimensione mondialistica  della mafia si parla soprattutto nella conclusione del libro. Ma più che di salto si tratta di una costante e progressiva evoluzione, che ruota intorno alla straordinaria capacità di mimetizzazione che obiettivamente i mafiosi rivelano nel momento in cui lasciano le zone d’origine per trapiantarsi in altre. Fanno di tutto per passare inosservati, per tessere più efficacemente quella rete di interessi che è lo scopo principale del loro espandersi e del loro insediarsi nelle aree in cui il riciclaggio può produrre maggiori profitti. La  parola chiave è dunque “riciclaggio”, motore e centro di una “economia parallela”. Sempre più frequentemente si parla di “mafia liquida” con riferimento alla capacità dell’economia mafiosa di infilarsi un po’ dappertutto, proprio come l’acqua. Con ottimi (purtroppo) risultati, grazie anche ai vantaggi notevoli di cui l’operatore economico mafioso o legato alla mafia gode rispetto all’imprenditore “pulito”. È sempre più evidente che, forte di una imbattibile concorrenza sleale che destabilizza il mercato, l’economia illegale sta sempre più inquinando l’economia pulita, con gravi conseguenze. In Italia e non solo. Dunque, meno violenza, sempre più impresa. Una “cultura ”  riscontrata dalle intercettazioni eseguite nel corso di una recente indagine coordinata dalla Dna sulla presenza delle mafie nel settore del gioco d’azzardo on line. Nel dialogo tra due dei protagonisti, uno dice all’altro: “non mi interessano quelli che fanno bambam per le strade, ma quelli che fanno pin pin sulla tastiera”. Infine, la dimensione mondialistica è facilitata e al tempo stesso aggravata dal fatto che praticamente solo in Italia è punito il reato associativo (art. 416 bis), senza del quale – sosteneva Giovanni Falcone – pretendere di combattere efficacemente la mafia è come pretendere di  fermare un carro-armato con una cerbottana… 

Per entrambi Voi magistrati e autori del libro, la lotta alla mafia e la scelta di affrontarla e combatterla ha coinciso con una presenza istituzionale sul territorio: in primis la Procura di Palermo e la Direzione distrettuale antimafia, rivivendo forse le solitudini dei colleghi Falcone e Borsellino, la sovraesposizione, i pericoli quotidiani degli attentati ma anche il clima spesso omertoso e conflittuale percepito negli stessi ambienti della Giustizia. Perchè questa scelta così  frontale, quali le motivazioni e le aspettative?

La decisione  di chiedere il trasferimento da Torino a Palermo subito dopo le stragi del 1992 che avevano causato la morte di Falcone e Borsellino fu difficile, anche per il pensiero della mia  famiglia, che lasciavo sola a Torino, e  che dopo le “prove” ( le paure ed i sacrifici) del terrorismo facevo ripiombare in una situazione persino peggiore, in un momento peraltro cruciale della crescita dei miei due figli. Alla fine, a far pendere la bilancia dalla parte del sì sono stati (oltre all’appoggio, sia pure tormentato, dei miei familiari) l’incitamento di  tante persone a me care. Tra queste, un ruolo importante  ebbe don Luigi Ciotti, teorico e praticante – ieri come oggi – della necessità di mettersi a disposizione, di “sporcarsi le mani”, di mettersi in gioco tutte le volte che ne valga la pena. Forse però il consiglio decisivo arrivò da mio figlio Stefano, allora diciassettenne. Quando la discussione cadde ancora una volta sulla scelta di Palermo, quasi sbottò dicendo : “Se le cose nel nostro Paese vanno male, forse   è perché siamo sempre bravi a dire quello che si deve fare,  ma poi non si fa niente. Quindi, papà, se vuoi andare a Palermo, se pensi che sia importante andarci,  vacci!”. Queste parole mi diedero forza. In qualche modo il mio impegno aveva anche il senso di un esempio civile per i miei figli.

Dopo le stragi di Capaci e di Via D’Amelio del 1992 che chiusero l’esperienza giudiziaria ed esistenziale di Falcone e Borsellino  quanto fu difficile raccogliere il testimone e riannodare pazientemente le fila della giustizia, sia in termini operativi che di ripensamento di un percorso che voleva ricostruire un tessuto di legalità nella società e nel Paese?

Fu molto difficile ma ne valse la pena. Lo testimoniano gli straordinari  risultati ottenuti dopo le stragi. Si fa luce su numerosissimi omicidi commessi da Cosa nostra aventi come vittime sia affiliati, sia esponenti delle istituzioni, sacerdoti, giornalisti, imprenditori, professionisti. L’elenco è interminabile. Ma per prima va menzionata la strage di Capaci, perché la prima decisiva confessione al riguardo fu resa il 23 ottobre 1993 – in un interrogatorio svoltosi dalle ore 1,45 alle ore 6 – a a me in quanto  procuratore di Palermo . Proprio a me infatti aveva chiesto di parlare il pentito Santino Di Matteo, per ricostruire nei dettagli l’attacco criminale (cui egli aveva personalmente partecipato) che aveva causato la morte di Falcone. Una rivelazione cui Cosa nostra reagì con una feroce rappresaglia di stampo nazista contro l’inerme figlioletto tredicenne del pentito. Ricordo poi che sono stati individuati, arrestati, processati e condannati pericolosissimi boss. Un numero così imponente di latitanti  catturati , ciascuno di elevatissima caratura criminale, non si registra né prima né dopo il periodo del “dopo stragi”. Fra i tanti , per citarne solo alcuni appartenenti al vertice dell’organizzazione mafiosa: Salvatore Riina, Raffaele Ganci, Giuseppe e Filippo Graviano, Leoluca Bagarella, Giovanni Brusca, Pietro Aglieri, Gaspare Spatuzza, Vito Vitale… Si individuano e si sequestrano beni e capitali di provenienza illecita per un valore complessivo superiore a 5,5 milioni di euro (pari a circa 11 miliardi di lire). Si registra una slavina di pentiti: il determinante contributo dei collaboratori di giustizia innesca intense indagini e  processi che si concludono con condanne per 650 (!) ergastoli e un’infinità di anni di reclusione. Un dato impressionante, che va intrecciato con i molti processi ad imputati “eccellenti” accusati di collusione con la mafia. Processi ( in particolare quelli ad Andreotti, Mannino, Dell’Utri e Carnevale) che il libro analizza e approfondisce, dimostrando “ per tabulas” che furono tutt’altro che “teoremi” o “fallimenti” come invece vorrebbero far credere spregiudicate fake news orchestrate ad arte.

Ripenso spesso ad alcuni segnali percepiti in  quegli anni terribili: che cosa avevano intuito Falcone e Borsellino? Il primo che parlò di menti raffinatissime, il secondo che dopo la morte del collega immaginò la propria fine come una pagina già scritta. Dove era lo Stato in quegli anni, oltre che nelle loro figure carismatiche che ancora adesso ricordiamo e piangiamo?

Falcone e Borsellino sono considerati e celebrati come eroi, ma solo dopo morti. Molti (troppi) non sanno o hanno dimenticato che in vita furono invece maltrattati e vilipesi. Con il maxi-processo stavano sconfiggendo la mafia e rendendo al nostro Paese un servizio ineguagliabile, ma invece di essere sostenuti furono ostacolati e calunniati in ogni modo: professionisti dell’antimafia, uso spregiudicato dei pentiti, trasformazione del pool in un centro di potere, stravolgimento della giustizia a fini politici di parte. Alla fine, Falcone fu costretto ad emigrare da Palermo dove più nessuno lo voleva e dovette chiedere una specie di asilo politico-giudiziario a Roma, al ministero. I frutti velenosi della spietata delegittimazione di Falcone attecchiranno persino all’interno del Csm, quando (dovendosi sostituire Nino  Caponnetto che aveva concluso la sua “missione”) Falcone, il più bravo nell’antimafia, il grande protagonista del maxiprocesso, viene scavalcato da un magistrato – Antonino Meli – digiuno di mafia e forte unicamente di una maggiore anzianità. Dirà Borsellino che Falcone comincia a morire proprio allora. In quel CSM dove i nemici di Falcone (i Giuda evocati da Borsellino) faranno girare la voce che Falcone l’attentato esplosivo dell’Addaura se l’era organizzato da solo per garantirsi un “aiutino” in carriera. Un’infame viltà. 

Nel libro Lei e il Suo collega Lo Forte cercate di analizzare il complesso legame che nel tempo ha unito , come in un intreccio mai fino in fondo decifrato, l’attività criminosa comune con i poteri forti: quel legame che Voi definite “relazioni esterne, che creavano una sorta di interscambio e una rete protettiva alle connessioni tra malavita organizzata e legalità costituita. Ripercorrendo quella storia evocate anche vicende personali di “privazioni di diritti” e di “prezzi da pagare” nelle Vostre rispettive carriere. Vuole parlarne? Cercando il file rouge della lunga trama in cui si è dispiegata la forza della mafia, dopo le più remote vicende del “palazzo dei veleni”, da come scrivete nel libro c’è stata dunque una sorta di privazione meno sanguinaria e più sottile della Vostra funzione giudiziaria, per condannarVi, se posso permettermi , all’irrilevanza fino a conculcare e inibire la Vostra attività  giudiziaria a più alti livelli?

Sì, abbiamo pagato dei prezzi pesanti  sol perché non abbiamo mai piegato la schiena.  Io sono stato scippato del diritto di concorrere al ruolo di procuratore nazionale antimafia (2005), mediante una legge contra personam, poi dichiarata incostituzionale, con cui il potere politico (mentre era in pieno svolgimento il concorso pubblico) ha espropriato il Consiglio superiore della magistratura, di fatto favorendo la nomina Pietro Grasso, unico concorrente rimasto in lizza. Il tutto con palese violazione di ogni regola, candidamente e pubblicamente “spiegata” come una ritorsione per il processo Andreotti. A Lo Forte il “prezzo” è stato fatto pagare anni dopo, nel 2014. Primo in graduatoria e già designato a larga maggioranza dalla competente commissione, dato ormai da tutti per sicuro vincitore del concorso con cui il Csm si accingeva a nominare il nuovo capo della Procura di Palermo, fu “vittima” di una inaspettata interruzione della procedura. Una nomina imminente e quasi certa venne bloccata dalla presidenza della Repubblica, chiedendo che prima di Palermo fossero ricoperti gli uffici vacanti da più lungo tempo. Principio mai applicato prima di allora. Il Csm, invece di puntare i piedi in difesa della sua autonomia, accettò di essere di fatto “dimezzato”. E quando l’esame della “pratica” riprese, Lo Forte , evidentemente  “scomodo”,  fu scavalcato da un altro ( Franco Lo Voi).

Nel Vostro saggio Vi soffermate sul concetto di “concorso esterno in associazione mafiosa”: va letto come capo d’accusa o come via d’uscita per farla franca? Voi citate un elenco cospicuo di processi e imputati eccellenti, ripercorrendo una trama inquirente che Vi ha visto protagonisti. Che cosa resta di quella stagione? Lo “Stato illegale” è “l’ingiustizia che assolve” di cui parlò il Generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, in un celebre discorso del 1980, due anni prima della sua uccisione?

Esempi di “ingiustizia che assolve” nel libro non ne mancano;  sono quanto meno esempi di giustizia che percorre ( a volte sembra  persino inventarsi) strade assai tortuose per arrivare all’assoluzione. Quanto al concorso esterno, la tesi secondo cui questo reato non esiste nel Codice  ma è un reato di pura fantasia giustizialista, è del tutto sconsiderata e falsa. Chi urla il contrario, chi strepita e sproloquia contro il “concorso esterno” non sa bene quel che dice. O lo sa fin troppo bene… Perché non è possibile (se non mettendosi fuori della realtà) dimenticare che la vera forza della mafia non è la sua struttura gangsteristica. Il suo autentico potere sta altrove: nelle complicità, collusioni e coperture. E l’unico strumento investigativo-giudiziario che consente di intervenire anche su questo versante è appunto il “concorso esterno”.

Viviamo in un’epoca in cui si percepisce una sorta di illegalità diffusa che va dai favori, alle protezioni, alle nomine, alle revoche, ad una logica di sistema che potremmo riassumere con le parole di Pirandello (“La Giara”) : “Chi è sopra comanda, chi è sotto si danna”? Ci sono Associazioni – cito per tutti “Libera” che combattono e viso aperto l’illegalità ispirando ad esempio azioni concrete come la confisca dei beni dei mafiosi. Ma in una società composita che tutto sommato non è sempre migliore dei suoi rappresentanti, si colgono atteggiamenti di indifferenza, ignavia, complicità. E’ la società egoista e cattiva dei Rapporti CENSIS. Da dove si deve ripartire per creare una cultura della legalità? Che cosa può fare la scuola?

Secondo me, il punto di ripartenza (utile soprattutto coi giovani) è quello che punta sulla legalità che  paga, che non è un’astrazione ma una convenienza concreta , un vantaggio per tutti e per ciascuno. Le cifre dell’economia illegale sono da capogiro. L’evasione fiscale ci costa 120 miliardi di euro l’anno (siamo il terzo paese al mondo). La corruzione è una rapina annuale di 60 miliardi (stima della Corte dei conti). L’economia mafiosa registra ogni anno un business di 150 miliardi. Sommando le tre “voci”, si ha un fatturato totale spaventoso: 330 miliardi di euro. A rimetterci siamo noi cittadini, perché l’illegalità economica, in tutte le sue declinazioni, non è soltanto violazione di norme di legge e precetti morali (non rubare!), ma anche se non soprattutto devastante impoverimento della collettività. L’equazione “illegalità=evasione fiscale=corruzione=mafia=impoverimento” è una filiera quasi matematica. Il risultato è che la legalità non è solo questione di “guardie e ladri”, ma ci riguarda da vicino. Perché ogni recupero di legalità è recupero di reddito e di risorse  a vantaggio di noi tutti. E’ la chiave giusta per affrontare i problemi economici e sociali che ci affliggono. E’ precondizione fondamentale per avere una migliore distribuzione delle risorse, così che la giustizia sociale possa avviarsi a diventare una pratica vera e non solo un’illusione. In sostanza, la legalità ci conviene, perché può migliorare in maniera decisiva la qualità della nostra vita. Per i giovani, la prospettiva di un futuro più felice…

 

Molti giovani leggono con interesse queste interviste: la Sua –  prestigiosa per esperienza e carisma- può essere l’occasione per indicare vie da percorrere e stili di vita personali e sociali da assumere. Quali valori devono ispirare la loro vita in un mondo sempre più affascinante ma complicato?

Ammesso che io giovani  vogliano ascoltare, direi che la società (più esattamente, alcuni suoi consistenti settori) appare oggi impaurita, inquieta, incerta: sconcertata da un futuro che sembra ingovernabile, esposto a derive pericolose.  Nell’anestesia delle coscienze, crescono rassegnazione ed indifferenza. Seguono a ruota disimpegno e riflusso. A fronte di questa situazione, occorre irrobustire la nostra capacità di presenza nel mondo contemporaneo. Dobbiamo educarci alla RADICALITA’ DEL PRESENTE. E’ l’unico modo per essere realmente vivi, per sfruttare fino in fondo le potenzialità dell’oggi.  Bisogna sapersi “sporcare le mani”: studiare il passato, capire quel che ci sta intorno, essere capaci di critica intelligente, rifiutando mode, conformismi, idoli e seduzioni. Il futuro non è un domani “esterno” a noi, ma è “dentro” di noi. Deve crescere la consapevolezza che è proprio il presente, che sono proprio le scelte realizzate oggi a preparare il futuro. In questo quadro, ecco un modo serio e produttivo per vivere e rivitalizzare legalità e antimafia. Contribuendo a fronteggiare  i rischi di arretramento che la qualità della nostra democrazia oggi corre.