Come definire Vassalli? Una personalità estremamente poliedrica e complessa, impossibile da inquadrare in modo esauriente. Possiamo dire, comunque, che fu un uomo antisistema durante un regime totalitario e un paladino della legge in uno Stato liberaldemocratico.
Francesco Marcelli
Proprio tredici anni fa ci lasciava Giuliano Vassalli, un grande giurista, partigiano, ministro e presidente della Corte costituzionale. Una personalità estremamente poliedrica e complessa, impossibile da inquadrare in modo esauriente in tale sede; cosa che infatti non farò. Ripercorrerò quindi sinteticamente solo alcune delle principali tappe della sua vita, avvalendomi tra le varie fonti anche della testimonianza di un suo stretto collaboratore, da me intervistato recentemente, per delinearne meglio la personalità. Mi soffermerò in particolare però sulla sua attività di partigiano che, come dice Francesco Palazzo “fece maturare in Vassalli quegli ideali di umanismo, libertà e democrazia che costituirono poi i motivi fondamentali della sua riflessione giuridica” (F. Palazzo, Giuliano Vassalli).
Giuliano Vassalli, classe 1915, proveniente da una famiglia medio borghese, ricevette un’ottima formazione e spese la sua giovinezza tra Perugia, Roma e Genova per via dei molteplici incarichi universitari che suo padre, il civilista Filippo Vassalli, dovette ricoprire.
A partire dal 1936, anche a causa dell’uccisione di suo zio da parte dei franchisti durante la guerra civile spagnola, iniziò a manifestare una piena adesione all’antifascismo. Il 9 settembre 1943, il giorno dopo l’armistizio, Vassalli entrò subito a far parte della resistenza romana nelle Brigate Matteotti (componente socialista della resistenza). A partire da ottobre fu introdotto inoltre anche nella giunta militare centrale del CLN. Egli si guadagnò subito una certa fama, essendo riuscito con l’aiuto di altri sei partigiani socialisti, ad organizzare la fuga di Pertini e Saragat dal carcere di Regina Coeli. Questi ultimi infatti erano detenuti nel braccio del carcere controllato direttamente dai Tedeschi, dal quale, come ricorda lo stesso Saragat, “si usciva in un modo solo: per andare di fronte al plotone di esecuzione. Qualche volta si poteva uscire già morti per le percosse subite dagli aguzzini durante gli interrogatori. Se Pertini ed io ne siamo usciti miracolosamente in un terzo modo – e fu caso unico – è faccenda che non riguarda né Pertini né me, ma un gruppo di valorosi partigiani che rischiarono la loro vita per salvare la nostra” (V. Faggi, Sandro Pertini: sei condanne due evasioni). In qualità di capi della resistenza erano entrambi destinati ad essere fucilati da un giorno all’altro, bisognava quindi fare presto.
Così racconta l’accaduto lo stesso Vassalli: “Nenni mi incaricò di studiare le soluzioni possibili per la restituzione alla libertà di queste due autorevoli e amate personalità della politica socialista. Attraverso messaggi cifrati riuscimmo ad avvertire del nostro piano Sandro Pertini che, dimostrando già allora una levatura morale ed una lealtà senza precedenti, non esitò a recapitarci la seguente risposta: ‘se esco io, devono uscire tutti i socialisti detenuti all’interno di Regina Coeli. Altrimenti non se ne fa niente’. Scartammo subito l’ipotesi di un’evasione classica. La nostra attenzione fu tutta riversata su uno stratagemma di carattere giuridico. Il nostro obiettivo era quello di realizzare dei falsi ordini di scarcerazione. Massimo Severo Giannini ed io eravamo stati fino all’8 settembre 1943 in servizio presso il tribunale supremo militare. Ci ripresentammo in questo luogo con la scusa di chiedere informazioni sulla scadenza del termine consentito agli ufficiali ‘sbandati’ dopo l’8 settembre, che intendessero arruolarsi nuovamente nell’esercito della RSI. Questo stratagemma ci consentì di muoverci per alcuni minuti indisturbati all’interno del tribunale. Riuscimmo così a impossessarci di nascosto di moduli e timbri di ogni genere. Poi Giannini prese a campione dei moduli di scarcerazione abitualmente utilizzati e li imitò perfettamente. Gli ordini di scarcerazione furono recapitati e tutti e sette i nostri compagni uscirono dal carcere. Le prime due notti successive alla loro fuga da Regina Coeli, essi [Saragat e Pertini] le passarono con me in una casa di un mio zio paterno” (M. Lo Presti, Frammenti di storia).
L’evasione avvenne il 24 gennaio 1944 intorno alle 18.30, come è ricordato in un articolo dell’Avanti! scritto da Vassalli stesso insieme a Giannini all’indomani della liberazione di Roma per celebrare il grande risultato. Tale beffa fu senza dubbio un vero e proprio record nella storia della resistenza, dato che furono liberate ben sette persone senza sparare un colpo e con l’aiuto inconsapevole dei carcerieri.
Purtroppo però la macchina repressiva nazista continuò a colpire. Già il 3 aprile Vassalli venne arrestato. Un gruppo di SS lo intercettò infatti in via del Pozzetto nel centro di Roma. “Mi saltarono addosso. Mi trascinarono nella macchina in quel largo che ora si chiama piazza Poli. Subito dopo mi portarono per via del Corso, verso via Tasso. Cercai di evadere dalla macchina e allora mi percossero selvaggiamente, tanto che, quando arrivai in via Tasso, fecero allontanare tutti i civili! Io entrai avvolto in un’enorme coperta, perché sanguinavo da tutte le parti” (op. cit.). Nel celebre carcere di via Tasso egli fu interrogato e torturato più volte, senza però mai lasciarsi sfuggire una parola sui suoi compagni partigiani e sulla sua famiglia. Ricorda egli stesso che la sua fucilazione sembrava ormai prossima e inevitabile, quando ad un certo punto avvenne l’impensabile. Nel frattempo infatti suo padre si era mosso in tutti i modi possibili per procurarsi un’intercessione volta a liberarlo. Intercessione che di fatto ci fu e provenne addirittura da Pio XII, il quale riuscì ad ottenere la sua scarcerazione il 3 giugno 1944, un giorno prima che i Tedeschi lasciassero Roma.
Vassalli racconta: “mio padre era amico di Francesco Pacelli, fratello di papa Pio XII; si erano conosciuti durante i lavori per la firma del Concordato del 1929. La sera del 3 giugno mi venne incontro un sacerdote tedesco, padre Pancrazio Pfeiffer: pensai fosse giunto il momento dell’esecuzione; era invece il sacerdote che aveva ottenuto la mia scarcerazione” (intervista di Lo Presti in ‘Attimo fuggente’). Poco prima di lasciare la prigione gli si avvicinò Kappler in persona, che con tono estremamente severo gli disse: “Ha da ringraziare esclusivamente il Santo Padre se lei nei prossimi giorni non viene messo al muro, come ha meritato. Non è forse vero che lo ha meritato, signor Vassalli?”( G. Angelozzi Gariboldi, Pio XII, Hitler, Mussolini. Il Vaticano fra le dittature). Vassalli gli rispose che in fin dei conti non aveva ucciso soldati tedeschi e che non era del suo stesso avviso. Kappler ulteriormente indispettito replicò alla sua affermazione, finché poi gli intimò di andarsene e gli disse: “che io possa non rivederla mai più!”. Così Vassalli se ne andò salendo in auto insieme a padre Pfeiffer diretto a via della Conciliazione. Cosa gli sarebbe potuto accadere senza tale intervento sembra alquanto scontato, specialmente in un momento in cui i nazisti si stavano preparando ad abbandonare Roma; cosa che appunto significava esecuzioni sommarie dell’ultimo minuto o deportazioni.
Tornando un attimo indietro, è interessante notare come la liberazione di Pertini e Saragat sia avvenuta prima dell’eccidio delle Fosse Ardeatine, che li avrebbe sicuramente coinvolti se fossero rimasti ancora in carcere; così come è altrettanto interessante il fatto che Vassalli sia stato arrestato dieci giorni dopo tale eccidio e liberato il giorno prima che i Tedeschi abbandonassero Roma. La sorte spesso è molto più generosa di quanto si dica, o almeno così è con alcuni. Una cosa è certa, se il piano di evasione da Regina Coeli fosse stato scoperto, molto probabilmente l’Italia non avrebbe mai avuto due importanti Presidenti della Repubblica quali Pertini e Saragat, così come, senza l’intercessione di Pio XII avvenuta al momento giusto, non avremmo mai avuto un grande Ministro della Giustizia e presidente della Corte costituzionale quale Vassalli.
Finita la guerra, Vassalli ricoprì ruoli molto importanti nella neonata Repubblica italiana. Partecipò alla famosa scissione di Palazzo Barberini divenendo uno dei principali esponenti del partito socialdemocratico italiano e successivamente del Psi. Fu uno dei più illustri avvocati e docenti di diritto penale presenti in Italia. Egli infatti fu autore di una copiosa produzione giuridica in materia penalistica e processuale. Si occupò tra l’altro dei più importanti processi giudiziari di questo Paese, come, solo per fare qualche esempio, quello per i disordini di Genova del 1960, quello sul caso Baffi-Sarcinelli, quello sul caso Lockheed. Fu inoltre uno dei più autorevoli esponenti del garantismo. Ricoprì la carica di Ministro di Grazia e Giustizia dal 1987 al 1991 (in quella veste varò il nuovo Codice di Procedura Penale), fino a divenire prima giudice e poi presidente della Corte costituzionale nel 1999. Ebbene credo che non si possa comprendere appieno la statura dell’illustre uomo delle istituzioni, quale egli era divenuto, se prima non si conosce il coraggioso e integerrimo partigiano della fase giovanile; Giuliano Vassalli infatti fu entrambe le cose.
Parliamo ora però dell’aspetto umano. Come mi ha raccontato in una recente intervista Franco D’Urbano, assistente universitario e collaboratore di Vassalli nel suo studio privato di via della Conciliazione 44 a partire dal ’68, egli era “un uomo molto rigoroso, preciso e puntuale. Una persona che non sapeva mai star senza far niente ed incline ad un comportamento iperattivo ed efficiente”. Amava molto l’insegnamento e, come racconta appunto D’Urbano che era stato anche suo studente, “seguiva con molta cura e attenzione i propri alunni”. Egli addirittura ad un certo punto della sua vita abbandonò il lavoro di avvocato per dedicarsi completamente all’insegnamento nelle aule universitarie, altra lezione di grande umiltà. Un uomo che tenne sempre a coltivare le vecchie amicizie. Tanto per fare un esempio, il suo collaboratore ricorda come molto spesso dovette accompagnarlo dal suo studio di via della Conciliazione a piazza Adriana dove abitava Pietro Nenni, per andare a trovare il suo caro amico al quale era legatissimo. Vassalli era “un individuo abbastanza riservato, ma allo stesso tempo quando si trattava di dire la sua non la mandava certo a dire”.
Un uomo dotato anche di grande fermezza, sia quando si trattava di far rispettare le regole all’interno dell’università durante i difficili anni della contestazione giovanile, sia nelle aule dei tribunali, sia all’interno del proprio partito. “Craxi gridava sempre con tutti: con me gridava un po’ meno che con gli altri” (Lo Presti, op. cit.), racconta Vassalli, facendoci capire l’alto grado di rispetto di cui egli godeva. Vassalli fu certamente un uomo morigerato, equilibrato ed incline alla mediazione, come tutte le persone abituate ad approcciare quotidianamente la complessità, ma allo stesso tempo estremamente franco nel dire quello che pensava. Penso per esempio al suo deciso intervento a Montecitorio contro la linea della fermezza per quanto concerne il caso Moro: “io appartenni infatti – e in venticinque anni non ho mutato il mio punto di vista – a coloro che non condivisero, pur rispettandone alcune motivazioni, le idee e i propositi del cosiddetto partito della fermezza” (Lo Presti, op. cit.). Vassalli assistette legalmente, in una prima fase dell’istruttoria del processo, la moglie di Moro, che si recò spesso nel suo studio, come ricorda anche D’Urbano. Sempre quest’ultimo racconta, a proposito del caso Moro, di essersi occupato, come collaboratore, insieme a Vassalli del processo a
Paola Besuschio, brigatista rossa arrestata nel ’75 e accusata di tentato omicidio per aver esploso colpi di arma da fuoco in aria per spaventare chi la stava inseguendo, senza però uccidere nessuno. L’unico appiglio giuridico per contestare il delitto di tentato omicidio nei confronti degli inseguitori, appartenenti alle Forze dell’Ordine, fu quello di ritenere configurabile il dolo eventuale nel tentativo di delitto. Invece, a parere della difesa, non poteva, nel caso di specie, ricorrere tale ipotesi criminosa a titolo di dolo eventuale, in quanto l’imputata aveva sparato in aria esclusivamente per creare un fuoco di sbarramento e non contro qualcuno con l’intenzione di ucciderlo. Il caso ovviamente era al limite, tanto che si fece ricorso in Cassazione contro la sentenza di condanna ma invano. Tuttavia, quando nel ’78 i brigatisti che avevano sequestrato Moro fecero tra gli altri anche il nome della Besuschio come possibile ostaggio da scambiare con quest’ultimo, allora si riprese il dibattito. Vassalli insieme ai suoi più fedeli collaboratori, tra cui appunto D’Urbano, si rimise a studiare il caso Besuschio e l’ipotesi di dolo eventuale, cosa che lo portò appunto a proporre, non essendosi costei macchiata di delitti di sangue, lo scambio con Moro. Il Psi rilanciò da subito questa proposta concreta che Vassalli aveva avanzato, c’era però solo un problema: la grazia da concedere. Come ricorda bene Francesco Damato in un’intervista a Radio Radicale, il Capo di Stato Giovanni Leone era ben disposto a concedere la grazia alla Besuschio, che essa la chiedesse o meno, il problema però era che costei aveva altri processi pendenti, oltre a quello per il quale era stata condannata, di conseguenza la grazia non avrebbe sortito alcun effetto.
Vassalli e il partito della trattativa si accorsero comunque che, al di là di questi problemi tecnici, non c’era una reale volontà di salvare Moro attraverso uno scambio di prigionieri da parte della maggioranza dei politici, primo fra tutti l’allora presidente del consiglio Andreotti che si oppose fermamente alla liberazione della brigatista. In quei fatidici giorni Vassalli cercò di fare il possibile per salvare la vita al suo amico e collega Aldo Moro, purtroppo un problema di queste proporzioni andava decisamente oltre le sue possibilità. Risalta in questa vicenda la figura di un giurista capace di trovare un equilibrio tra diritto e morale. Egli infatti fu un uomo sempre in prima linea nel salvare vite umane dall’ingiustizia, che si trattasse di Pertini e Saragat rinchiusi a Regina Coeli o di Moro nelle “prigioni del popolo”. Un uomo antisistema durante un regime totalitario e un paladino della legge in uno Stato liberaldemocratico, con il solo obiettivo di rendere la realtà in cui viveva un po’ più giusta.