E’ stato tra i protagonisti della vicenda italiana del Dopoguerra. Con questa intervista inedita, che ripercorre la storia del Ministero degli Interni, il “Domani d’Italia” intende ricordarne il senso dello Stato e il rispetto per le istituzioni
Presidente, che ruolo ebbe, a suo giudizio, il Ministero degli Interni della nascente Repubblica nel conciliare le diverse anime del Dopoguerra, in modo particolare i “vincitori” con quella parte del Paese che era rimasta compromessa con il passato regime fascista ?
Se ricordo bene, durante il fascismo metà dei prefetti era nominata direttamente (di norma tra i Segretari Federali) mentre l’altra metà apparteneva alla carriera, che era molto rigorosa nelle promozioni. Epurati i prefetti politici, restò una splendida schiera di “amministrativi”, che fu determinante per la ricostruzione e la normalizzazione del Paese. Prefetti come Vicari e Vicedomini erano “di cappa e di spada”. Ma tutta l’Amministrazione funzionò benissimo.
Nel 1947 finisce il “tripartito” e con esso la possibilità della “democrazia compiuta”. Il clima dovuto alla “guerra fredda” porta a relegare la sinistra verso un ruolo di continua opposizione. De Gasperi, nel suo III governo sceglie, come ministro degli Interni, Mario Scelba e lo confermerà fino al settembre del 1952 nel suo VII Governo. E’ una figura profondamente anticomunista, ma altrettanto antifascista e vicina a Sturzo fin dalle origini del Partito Popolare. Non pensa che la scelta di Scelba sia stata determinata anche per garantire che l’Italia non cadesse nel rischio di regimi di estrema destra?
Scelba aveva fatto benissimo al Ministero delle Poste (bloccando anche interessi di un gruppo americano) e, per di più, era un duro. Quando, dopo la liberazione di Roma, la sinistra voleva Nenni alla Presidenza del Consiglio, fu lui ad opporsi con forza e ci riuscì. Certamente anche De Gasperi era contrario, ma la battaglia in prima fila la condusse Scelba. Antifascista da sempre, Scelba fu un difensore formidabile della libertà, opponendosi ai comunisti e arginando ogni velleità di restaurazione fascista. Fu anche dichiaratamente per la Repubblica, mentre la Dc come tale era possibilista (non tanto nei dirigenti, ma negli elettori, specie del Centro e del Sud). Quando socialisti e comunisti, durante il dibattito sul Patto Atlantico, tentarono di occupare Montecitorio, Scelba dette ordini drastici alla Celere e il corteo – capeggiato dai parlamentari – fu bloccato a Piazza Colonna con inflessibilità.
Sempre in quel periodo avviene la strage di Portella della Ginestra dove Salvatore Giuliano e la sua banda uccisero undici dimostranti durante la festa del 1 maggio. L’assassinio del luogotenente Pisciotta non portò mai a chiarire fino a che punto ci fosse stata una interferenza da parte di alcune frange del mondo politico. Quali sono i suoi ricordi in merito?
Qualche volta Scelba sembrava persino provocatore. All’indomani della strage di Portella della Ginestra nel 1947, ad esempio. Nel dibattito disse con fermezza – provocando l’ira della sinistra – “come mai, essendo la Festa del Lavoro di tutta la provincia di Palermo, nessuno di voi deputati comunisti era li?”. L’onorevole Li Causi reagì, concitatissimo. Lo chiesi a Scelba, dopo la seduta, se pensasse davvero che i comunisti avessero responsabilità nella strage. Mi rispose di no, ma certamente qualcuno li aveva consigliati a starsene a casa.
Nel 1954 Lei ebbe l’incarico come Ministro degli Interni. Come ricorda quell’esperienza?
Fu De Gasperi a volerlo per dimostrare visivamente che appoggiava il governo Fanfani. Eravamo però privi di maggioranza precostituita e Fanfani si illudeva di appoggi o almeno di una non belligeranza di Nenni. Come è noto non avemmo la fiducia. Io restai governativamente disoccupato per circa un anno e mezzo, quando Segni mi nominò alle Finanze. Al Ministero dell’Interno non sono più tornato.
Nel luglio del 1960, dopo che il governo Tambroni aveva dato il via libera al Congresso del Msi a Genova, ci sono violente repressioni da parte delle forze dell’ordine a seguito delle manifestazioni di protesta contro il governo. Alcuni manifestanti furono uccisi. Correvamo effettivamente il rischio di un colpo di Stato?
Per quello che ricordo Gronchi aveva ottenuto da Nenni la non belligeranza verso Tambroni; c’era una bozza del programma di governo con correzioni di pugno di Nenni. Il gruppo socialista non ne volle sapere e Nenni abilmente si ritrasse. La destra cercò di inserirsi, ma la Dc non accettava questo ricambio. Ricordo che nel 1953, abbandonato dagli Alleati, De Gasperi cercò senza successo la tolleranza dei monarchici (non dei missini, che chiamava “gambalati” perché gli ricordavano il passo dell’ oca). Rischi di colpi di Stato in Italia non ce ne sono mai stati. Questo perché le forze armate sono rigorosamente al servizio della Nazione e non l’avrebbero permesso.
Con l’ingresso dei socialisti al governo, Moro forma il primo governo di centro-sinistra. Agli Interni è designato Paolo Emilio Taviani. Come reagì l’allora Ministro nel luglio del 1964, al pericolo di un colpo di Stato da parte del generale De Lorenzo?
Ripeto che colpi di Stato non si sono mai tentati in Italia proprio per le caratteristiche delle nostre forze armate. Il generale De Lorenzo sembrò autore di un progetto autoritario, ritenendo di dover calmare le ansie del Presidente Segni, preoccupatissimo per la situazione economica e già ammalato gravemente. Fu un momento di confusione. Tra l’altro a casa di Morlino fu fatta una riunione di vertici democristiani con De Lorenzo, senza che né Taviani (Interni) né io (Difesa) ne fossimo al corrente. Grande confusione sì, ma golpe no.
Come si caratterizzò l’operato del ministero a cui era a capo Taviani e perché fu scelto da Moro?
Taviani era un uomo concreto, un partigiano vero, serissimo. Dava tutte le garanzie.
Franco Restivo fu a capo degli Interni in un periodo drammatico e oscuro in cui l’Italia assisteva impotente ad episodi che vanno dalla strage di Piazza Fontana al tentato “golpe Borghese” alle prime apparizioni delle Brigate Rosse. Che ricordi ha di quel periodo?
Eravamo impreparati alla ferocia delle Brigate Rosse, ma un regime democratico non può mettere tutti sotto controllo. Del resto quando fa approvata la mite Legge Reale (fermo di polizia per quarantotto ore) vi fu una opposizione feroce e nel referendum sul tema la legge fu salvata, ma con stretto margine di voti nonostante la sostenessimo sia noi che i comunisti.
Che ricordi ha dei ministri dell’Interno che operarono durante i suoi governi? In particolare, ritiene che il sequestro e l’assassinio di Aldo Moro possa aver bloccato definitivamente il tentativo di portare a compimento il processo democratico?
Per Moro cercammo di fare tutto il possibile e non lasciammo nulla di intentato.
Ricordo che la vedova di uno degli agenti della scorta di Moro (che fu annientata la mattina di via Fani) disse che in caso di trattativa con i brigatisti si sarebbe data fuoco.
Anche la Santa Sede si mosse, attraverso i cappellani delle carceri e mettendo a disposizione una somma di denaro per il rilascio di Moro. Purtroppo fu inutile.
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Gli ultimi suoi governi coincidono con il crollo del muro di Berlino e la fine della “guerra fredda”. Ritiene che a partire da quel momento sia venuto meno quel clima di contrapposizione alimentato dal conflitto fra Occidente e comunismo?
Gli antidemocratici di sinistra persero la sponda di riferimento con il crollo dell’Unione Sovietica. E anche i fanatici di destra – che ci accusavano di essere illusi nel fronteggiare democraticamente i comunisti – persero uno strumento di lotta politica.
Oggi i problemi legati alla sicurezza sono cambiati. Nonostante qualche episodio grave, lo stragismo è ridotto ai margini. Si affacciano nuovi problemi come il terrorismo internazionale, l’esigenza di governare il problema dell’immigrazione. La sicurezza assume dimensioni più internazionali, più globali. Qual è il suo giudizio in merito?
Dobbiamo evitare l’errore delle guerre di religione. Mi sembra che la linea espressa dai
Ministri degli Interni che si sono succeduti negli ultimi governi sia quella giusta.