Intervista al Prof. Giuseppe De Rita  fondatore del Censis di cui è oggi presidente, il più prestigioso centro di analisi e interpretazione sullo sviluppo della società italiana. De Rita è uno dei massimi sociologi italiani, anche se ama definire se stesso un “ricercatore sociale”. 

Prof. De Rita, da lungo tempo si sente parlare di ‘complessità’ come chiave di lettura delle derive socio-culturali del nostro tempo. Questa ‘liquidità’ indecifrabile è il segno di un nichilismo incapace di azzardare ipotesi interpretative oppure la versione post-moderna delle ibridazioni tipiche di inizio secolo e millennio?

Lei ha usato tre termini che riassumono il senso del dibattito sociologico sulla nostra epoca: si tratta delle tre caratteristiche su cui sostanzialmente gli interpreti della società si ritrovano e convergono da tempo.

Parlo della complessità, della liquidità e della ibridazione. I ricercatori sociali sono inizialmente partiti dalla consapevolezza della complessità come situazione di fatto di una società in crescita, quella del cosiddetto post-moderno: di soggetti, di interessi, di territori, di ambienti. La decifrazione di questi aspetti della complessità era il nostro ambito di studio. Mano a mano che si andava avanti in questo compito di interpretazione e comprensione ci si rendeva conto che la società era in effetti complessa ma non ne avevamo l’immagine definita, l’intuizione dei contorni, dei margini, del centro e della periferia. Complessità voleva dire tutto ma non diceva niente. Da qui la metafora della liquidità – termine coniato da Bauman – come rappresentazione assai interessante e aderente alla realtà, che usando l’immagine dell’acqua rende bene l’idea dell’impantanamento e dell’ibrido sociale, in una dimensione direi orizzontale, debordante, espansiva ma senza una precisa e orientabile direzione di marcia.   

Aggiungo poi una mia interpretazione: ho usato recentemente la definizione della ‘società mucillagine’, in quanto caratterizzata dalla compresenza di molti soggetti che vivono uno accanto all’altro, in una sorta di ‘poltiglia sociale’, ma hanno difficoltà a comunicare tra loro. Questa – insieme alla ibridazione – è la caratteristica della società moderna: stiamo insieme, accostati come monadi isolate, ci contaminiamo  e viviamo in una sorta di limbo dell’indeterminato, incapaci paradossalmente di una comunicazione autentica.

La disaffezione della gente rispetto alla politica è dovuta ad una molteplicità di fattori: personalizzazione dei partiti, diaspore inestricabili, demonizzazione degli avversari, autoreferenzialità di un sistema fondamentalmente oligarchico che vuole succedere a se stesso. Non sembra che il ricambio generazionale abbia introdotto un valore aggiunto: è un problema prevalentemente italiano quello che separa il ‘paese reale’ dal ‘paese legale’?

Non è un problema prevalentemente italiano, interessa la società contemporanea e occidentale nel suo insieme: è un problema di cambiamento del livello organizzativo della società. Che cosa sta succedendo? 

E’ cambiata l’architettura sistemica, il governo della società è distribuito.

Siamo in presenza di un policentrismo magmatico, di una diffusa radicalizzazione delle individualità, di una frammentazione dell’autorità e dei livelli decisionali.

Io stesso ho usato la metafora della mucillagine: siamo monadi scomposte che si riaggregano solo possibilmente in una poltiglia indistinta, senza un collante che le unisca, magari in nome di un bene comune.

E’ la messa in crisi della storica struttura piramidale, verticistica, almeno nei fatti.

E’ chiaro che questa disaggregazione sociale non corrisponde agli interessi della politica, tutto deve essere controllato.

Nel momento perciò in cui avviene – per una richiesta di ordine sociale visibile e intellegibile – che la gente si chiede: “chi comanda qua?”, allora riemerge la tentazione di voler riaffermare  la struttura piramidale del potere, verticalizzarlo, ricreando l’edificio della piramide e certe volte l’immagine del faraone.

Questo meccanismo è talmente culturale che non può essere solo italiano.

In Italia questo fenomeno si era realizzato negli anni 90 con il fenomeno del ‘craxismo’, di cui vediamo le più recenti e aggiornate derive: bisogna avere più decisionismo, e poi dal decisionismo più concentrazione del potere, dalla concentrazione più verticalizzazione, della verticalizzazione si genera la personalizzazione, dalla personalizzazione la mediatizzazione, e da quest’ultima si arriva ai quattrini, come mezzo e come scopo. Questa è la concatenazione di fattori che ha generato la situazione attuale: l’aspetto mediatico è il fattore prevalente, in Italia questo processo si è arricchito e si è slabbrato.

Di fronte alla crisi la politica verticalizza sempre.

Ho letto che Lei ha spiegato la crisi economico-finanziaria del pianeta attribuendola alla struttura verticistica della oligarchia finanziaria internazionale. Ma è stata assente la politica rispetto alla capacità di prevedere e guidare le tendenze di medio periodo oppure c’è veramente una concentrazione occulta dei poteri forti in poche mani sapienti?

Sono state mani sapienti perché hanno curato i loro interessi. La crisi è nata dalla bolla speculativa, come in passato era accaduto per altre ‘bolle’. La verità è che si è trattato di un fenomeno di cui nessuno aveva prima sentore, cultura politica o consapevolezza. Quando il massimo responsabile della Lehman Brothers era andato in Tv a spiegare quello che stava succedendo aveva mostrato una faccia sorpresa: lo era davvero, neppure lui se lo aspettava. La finanza internazionale, quella che ha creato la bolla non poteva forse essa stessa prevedere i catastrofici effetti della crisi. La responsabilità più grossa è perciò nel fallimento dei vertici, politici e finanziari. 

Consideriamo il mondo dell’informazione in rapporto ai comportamenti sociali. Stampa, Tv, network non si limitano a comunicare i fatti, le notizie sono proposte insieme alla loro interpretazione peraltro non sempre cronachistica e neutrale. Quanto influisce la quotidiana massa d’urto di una deriva fondamentalmente negativa sui comportamenti sociali e sulla capacità di selezione e metabolizzazione di ciascuna persona? E quanto tutto questo spiega o anticipa gli eventi, educandoci reciprocamente al peggio? 

Se alla domanda togliamo il punto interrogativo ecco che abbiamo la risposta. Non c’è secondo me una malafede nel mondo dell’informazione. Il giornale, la Tv sono legati agli eventi: se non si aggrappano a quelli, chiudono.

L’evento, positivo o negativo che sia, ha ucciso l’interpretazione: questo è il dato veramente impressionante.

Quanto alla ‘bella notizia’ che potrebbe far breccia nelle cronache dei giornali, questo fatto non accade perché la notizia buona è un fatto che si vive in una dimensione feriale, quotidiana, ridotta, quasi intimistica. Si esternalizza e si vede prevalentemente il male, il negativo, lo si cerca negli altri.

Si parla di crisi di valori e di identità: nelle deprecate ideologie del novecento c’erano dei riferimenti magari astratti ma ideali. Dopo il loro tramonto quali riferimenti etici e culturali nuovi si affacciano all’alba del terzo millennio? I miti dell’efficientismo e della realizzazione sociale mi pare che stiano creando una nuova categoria di perdenti.

Senza cadere nella morigeratezza mi pare che ci stiamo abituando a dare peso e misura alle cose.

Io ho chiamato questo fenomeno come “arbitraggio attivo”: è la capacità di adattarsi alle mutate condizioni sociali, per selezionare ciò che serve, è utile, indispensabile o superfluo.

Questa realtà è il risultato di una revisione profonda, non so quanto dovuta alle circostanze e quanto ad un ripensamento individuale e collettivo. Mi domando se questa ‘agiata temperanza nei consumi’ porterà anche ad una ‘temperanza delle parole’. Mi pare che manchi la giusta misura nell’uso delle parole, prevalgono sentimenti cattivi, l’invidia, le relazioni rancorose, il fare aggressivo: uno va in televisione e spara parolacce, in questo modo si sente realizzato.

Mitezza, benevolenza e temperanza sono sentimenti e modi di porsi desueti nel mondo di oggi.

Oggi, spesso, le parole hanno un peso superiore ai fatti stessi, per questo dobbiamo saperle usare bene, serve una grande moderazione collettiva.

Diceva Gesualdo Bufalino: “la felicità da qualche parte esiste, ne ho sentito parlare”. La stiamo forse cercando nell’egoismo, nella fuga, nell’altrove? Il verbo ‘accontentarsi’ può essere ancora declinato all’indicativo presente? Quanto conta ancora la solidarietà come fattore di aggregazione sociale e perché emerge più facilmente in occasione di eventi particolari e negativi piuttosto che nella normale quotidianità? 

Più che cercare la felicità impossibile, l’utopia, il sogno, dobbiamo recuperare il gusto di vivere.

Non dico che dobbiamo accontentarci delle piccole cose, quelle così ben descritte da Natalia Ginzburg, dobbiamo cercare l’equilibrio nei rapporti sociali, stare bene insieme, uno accanto all’altro, vincere la solitudine.

L’identità, anche quella strettamente individuale, si completa e si realizza compiutamente nelle relazioni sociali. Siamo noi stessi, liberi, realizzati e possibilmente felici – nella giusta misura dell’accontentarsi – se sappiamo vivere insieme agli altri: individualità e identità si completano nella relazionalità. Se vogliamo vivere in una società composita e inclusiva non può essere che così.

 

Non si è mai parlato tanto di ‘merito’ come in questi tempi. Ma i capaci e i meritevoli – a cominciare dai giovani – dovranno necessariamente passare sotto le forche caudine dello spoil system? Non esiste un criterio di selezione sociale più garantista e trasparente?

Il problema esiste e sollecita una duplice considerazione: c’è la struttura piramidale e verticistica del potere che genera disuguaglianze, clientelismi e favoritismi, in una parola ingiustizia sociale.

E poi ci sono i comportamenti e le aspettative dei singoli, apprese crescendo, a cominciare da quelle imparate in famiglia.

Oggi molti pensano che tutto sia dovuto: che fatica, sacrificio, impegno riguardino gli altri, che a noi invece tutto spetti in modo agevole, facilitato.

L’altro giorno il mio barbiere mi diceva con orgoglio: “dottore, mia figlia si è laureata”….e io ho chiesto: “ah, si e in cosa?”….”in scienze della comunicazione sociale, una laurea triennale”….Allora lui si dev’essere accorto che arricciavo il naso, gli ho anche detto che c’è in giro molta concorrenza in quel settore di studi e di mercato del lavoro, che la strada sarebbe stata ancora lunga e in salita per questa ragazza. E così mi ha risposto” io ho fatto questo mestiere per 40 anni, mia moglie ha rinunciato a tutto per far studiare la figlia….dottò…non ci levi questa speranza che nostra figlia trovi un impiego”….

Quello che si deve capire, nella formazione dei giovani di oggi è che gli studi ti danno solo un’opportunità, sono un punto di partenza, poi il resto te lo devi a poco a poco guadagnare.

Anche nella mia esperienza professionale la vera ricchezza, la formazione, il risultato me lo ha dato il lavoro più dello studio. Ci vuole umiltà, rimboccarsi le maniche e impegno, tanto impegno, volontà di fare, capire, migliorarsi.

Vale sempre più la pratica che la grammatica.

 

Professor De Rita, Lei ha parlato – e me lo ha ricordato poco fa- di ‘società mucillagine’, composta da coriandoli accostati ma non uniti da un collante che dia senso all’insieme, una società imbarbarita: ” Il vaffanculo scritto dappertutto, la violenza, la volgarità, lo sballo, questa dimensione sempre più disadorna della cultura collettiva, la scuola dileggiata dai ragazzi che filmano gli insegnanti con il cellulare o provocano incendi. Una società che ha perso le passioni e ha solo impulsi”.  Da dove possiamo ripartire dopo l’ubriacatura della deregulation totale? Ho un netto timore e glielo confido: che si possa ricominciare solo dopo aver amaramente riassaporato la vera sofferenza. Quella che c’è intorno a noi non ci riguarda mai abbastanza, la respingiamo, non ci coinvolge.

Certamente la sofferenza non la si capisce se non la si vive. Io ho vissuto la guerra e quando racconto ai miei figli le notti trascorse a guardare le ellissi sul soffitto dovute alle allucinazioni per la fame, loro non ci credono, non possono crederci. Penso che ancora di più non ci crederanno i miei nipoti.

Mi pare che ci manchi – complessivamente, come società – il gusto di vivere: io ho vissuto le speranze del dopoguerra ma ora ci mancano sogni condivisi e speranze dei singoli, degli individui.

Ricordo una frase di un libro pubblicato da Mario Rossi, mio grande amico e Presidente dell’Azione Cattolica, che diceva proprio questa grande verità: “il gusto di vivere, la semplicità è ciò che manca veramente all’uomo di oggi”.

Quando avevamo fatto 50 anni di matrimonio e io e mia moglie avevamo dedicato ai nostri 8 figli e 16 nipoti una lettera personale, per ciascuno, dove auguravamo loro di provare – per così tanto tempo – lo stesso gusto di vivere che abbiamo avuto noi due, insieme.

 

Concludere parlando di speranza è più un dovere che un ragionevole auspicio. Lei ha scritto, di recente: ‘ripartiamo dal basso, dalla base sociale’. Ma se i vertici hanno fallito sapremo darci nuove regole da soli?

Quando era uscito il libro di Tremonti ”La paura e la speranza”, io avevo scritto un editoriale per il Corriere della Sera, che il Direttore mi aveva chiesto a commento di questo grande tema di interesse collettivo, non solo sul piano economico ma anche sul più esteso piano sociale. 

Può darsi che io abbia dato un’interpretazione che il lettore avrebbe anche potuto considerare riduttiva perché sostenevo nel mio scritto – e lo penso tuttora – che non ci serve solo una grande speranza collettiva ma tante piccole ‘speranzielle’, legate individualmente a ciascuno di noi, alla nostra vita e alle vicende della nostra quotidianità.

Quelle legate – in primis – alle nostre famiglie e al futuro dei nostri figli. 

Sono queste ‘speranzielle’ che ci fanno vivere, quelle a cui dobbiamo tenacemente aggrapparci.

Senza di queste non ci sarebbe neanche il progetto di una grande e possibile utopia collettiva.