Gli errori americani e il rafforzamento iraniano

In questo quadro, la Russia ha rafforzato i suoi legami con l’Iran; la Cina osserva con interesse le nuove difficoltà americane. E intanto Teheran pare sempre più vicina a possedere l’arma nucleare.

Dopo l’errore compiuto abbattendo il regime iracheno di Saddam Hussein senza aver preparato un “dopo” che potesse realisticamente reggere a livello popolare e politico in quel contesto, troppo diverso da quello occidentale e non pronto nell’immediato per una democrazia di tipo tradizionale, gli americani hanno pensato di poter progressivamente ridurre il proprio impegno nell’area mediorientale. Così, a cominciare dalla presidenza Obama e proseguendo con quella Trump (certo, con modalità di approccio alla questione e toni assai diversi fra le due) hanno diminuito non tanto la “presenza militare” nell’area quanto quello che potremmo definire il loro “interesse” all’area medesima, un elemento di natura psicologica che sempre anticipa le scelte che si attueranno e che un attento osservatore esterno è in grado alla lunga di cogliere. Gli ayatollah iraniani lo colsero prima di altri.

Il grande errore di Obama fu in Siria, quando non attaccò il regime di Assad dopo averlo minacciato di severa punizione se avesse utilizzato il gas nervino contro la sua popolazione nel corso della guerra civile combattuta in quegli anni. Cosa che il dittatore fece. Fu quello il segnale che gli Stati Uniti avevano optato per una presenza minore, consapevoli dello sbaglio commesso a Bagdad anni prima e animati ora da una visione più consapevole delle differenze esistenti, e con ciò da rispettare, fra cultura laica occidentale e mondo islamico, come era emerso dal grande discorso tenuto al Cairo proprio da Obama agli albori della sua presidenza.

Trump per parte sua era arrivato al potere garantendo agli elettori un minor dispendio di risorse economiche nella politica estera per dirottarle su quella domestica, e già questo era un messaggio al mondo che in molti avversari degli USA compresero bene. A cominciare da Putin. Ma anche a Teheran capirono. Il ritiro dall’accordo sul nucleare a suo tempo firmato da Obama poteva all’apparenza sembrare un irrigidimento americano, e così in effetti era (anche perché accompagnato dalla forzatura pro-israeliana che portava a Gerusalemme la capitale dello stato ebraico) ma rivolto solo all’Iran, per focalizzare gli sforzi e ridurre gli impegni nella regione, una volta che si fosse sconfitto lo “stato islamico” sorto nel frattempo nei territori fra Iraq e Siria insinuandosi fra le macerie delle abortite “primavere arabe” del 2011.

La elaborazione degli “Accordi di Abramo” e il rafforzamento delle relazioni d’affari col regime saudita erano un ulteriore conferma, per gli ayatollah, che la crescente attenzione di Washington per un altro e lontano quadrante geopolitico – quello del Mar Cinese meridionale – avrebbe distolto, appunto, “interesse” strategico dall’area nel suo insieme, concentrandolo prevalentemente sul nemico iraniano, ovvero su di essi. In un qualche modo anche la prima decisione adottata dal nuovo presidente, Joe Biden, l’abbandono dell’Afghanistan a sé stesso, confermava la teoria del disimpegno americano.

L’idea di colpire Israele (e dunque indirettamente anche Washington) non direttamente bensì “per procura” a mezzo di altri attori operanti sul territorio venne dunque sviluppata negli anni anche a fronte di queste osservazioni sul nuovo comportamento statunitense e si definì in parallelo alla “costruzione” di quella cosiddetta “Mezzaluna sciita” che dovrebbe unire Teheran con il Mediterraneo attraverso una sorta di autostrada che transitando dall’Iraq collega l’oriente persiano con il confine israeliano sulle alture del Golan e oltre sino alle spiagge libanesi e siriane. L’ideologo di questo ambizioso obiettivo fu il generale Qasem Soleiman e furono infatti le sue brigate al-Qods composte dai pasdaran “Guardiani della Rivoluzione”, l’ala militare più radicale del regime, distinta dalle Forze Armate ufficiali, a prenderselo in carico, sostenendo allo scopo vari gruppi islamici di matrice terrorista attivi nella regione.

Vennero così finanziate, addestrate, armate le comunità sciite presenti in altri stati, venne sostenuto Assad e il suo regime alawita-sciita, vennero combattuti i sunniti radicali dell’ISIS con milizie locali e anche provenienti dall’Iraq e pure dal Pakistan. Venne rafforzata la dotazione missilistica di Hezbollah, operativo da lustri in Libano in funzione anti-israeliana e di fatto in grado di influenzare pesantemente i governi libanesi via via succedutesi nel Paese dei Cedri, oltre che larghi strati della sua popolazione. A Teheran si comprese altresì la possibile forza di un lontano e oscuro movimento sciita yemenita, Houthi, e lo si finanziò allo scopo di renderlo un incursore assai insidioso per i sauditi e per gli interessi commerciali americani, europei, israeliani, arabi nel Mar Rosso, via marittima fra le più importanti a livello mondiale. Si giunse inoltre a sostenere Hamas, pur non sciita, in quanto utile strumento per tenere sotto pressione Israele a sud-est ma anche per il suo potenziale dirompente all’interno di un mondo sunnita ormai propenso ad accordarsi con l’odiato stato ebraico. Si finanziarono inoltre pure altri gruppi minori intrisi di fanatismo e radicalismo anti-israeiano e anti-occidentale – dalla Jihad islamica palestinese della West Bank alla Resistenza islamica irachena – che tornavano utili in questo progettato assedio sciita al nemico sionista, al suo alleato americano e ai musulmani sunniti.

È a mezzo di questa galassia delineata e costruita nel tempo che oggi l’Iran degli ayatollah attacca gli avversari, minacciando la distruzione di Israele, competendo con l’Arabia sunnita per il dominio regionale, rendendo pericolose le vie commerciali sul Mar Rosso e nel Golfo di Oman. Questa rete di alleanze gli consente inoltre di “proteggersi”, sia evitando un confronto diretto con Israele (che non vuole rischiare) sia creando profondità territoriale strategica a occidente dei suoi confini.

In questo quadro, la Russia ha rafforzato i suoi legami con l’Iran; la Cina osserva con interesse le nuove difficoltà americane; gli Stati Uniti si rendono conto, forse, degli errori commessi ma nel frattempo si ritrovano in mezzo ad una competizione presidenziale che minaccia di far tornare alla Casa Bianca un soggetto che ipotizza lo scioglimento della NATO; l’Unione Europea, al solito, valuta il da farsi. E intanto Teheran è sempre più vicina a possedere l’arma nucleare, pare.