Le proteste vanno avanti dallo scorso novembre e ogni nuova manifestazione di piazza raduna sempre più persone, giovani in particolare. Da quando una pensilina della stazione ferroviaria di Novi Sad, città a nord di Belgrado, è crollata causando il decesso di 15 persone il governo serbo si trova a dover affrontare una protesta popolare di massa, che sabato scorso nella capitale ha assunto dimensioni imponenti. Neppure le dimissioni del premier Milos Vucevic, date il 28 gennaio e ora finalmente ratificate dal Parlamento, hanno placato l’ira diffusasi fra la gente e rivolta contro l’endemica corruzione a giudizio dei manifestanti che avvolge il Paese. Un’ira ora indirizzata con maggior forza che nel recente passato verso il Presidente Aleksandar Vucic, in carica dal 2017.
La tragedia di Novi Sad conduce a Pechino, e ai rapporti intrattenuti con i cinesi sin da quando questi ultimi si sono proposti per finanziare (nell’ambito delle iniziative collaterali al mega progetto infrastrutturale Belt & Road Initiative e del format 14+1, con il quale la Cina mira a incunearsi in Europa) una linea ferroviaria ad alta velocità fra Belgrado e Budapest. La stazione di Novi Sad, in questo contesto, era stata ristrutturata nel 2022 da appaltatori cinesi.
Vucic è contestato apertamente sin dal 2023, accusato di brogli elettorali. La sua politica, che con una certa spregiudicatezza impasta nazionalismo serbo e conseguenti strette relazioni con la Russia, vago europeismo tendente verso un’integrazione comunitaria ricercata a intensità variabile e apertura internazionale dettata dalla possibilità di fare business (come nel caso dei rapporti con la Cina) è ormai apertamente contestata da settori sociali sempre più vasti.
Al tempo stesso Vucic è ritenuto da molti il sobillatore delle tensioni che si registrano da tempo nel Kosovo, paese indipendente dal 2008 nel quale la minoranza serba allocata nel settentrione della repubblica ambisce ad un’autonomia molto ampia nei comuni ove essa è maggioranza: il premier kosovaro, Albin Kurti, ha concordato con l’UE la costituzione di un’associazione che raggruppi quei comuni ma al momento essa non si è ancora concretizzata. Un atteggiamento che viene ritenuto ostile dai cittadini di etnia serba di quei municipi.
Ma forse la situazione più esplosiva è nella Bosnia-Erzegovina, paese frutto di quegli accordi di Dayton che nel 1995 posero fine al conflitto nella ex Jugoslavia. La Repubblica federale di Bosnia e Erzegovina si compone di due entità statali: la Federazione croato-musulmana della Bosnia-Erzegovina e la Repubblica serba Srpska, entrambe aventi organi legislativi e di governo in parte autonomi. In più nel nord est è presente un piccolo distretto, Brcko.
Il sistema politico-istituzionale ideato per far convivere le tre etnie principali, ovvero quella bosgnacca maggioritaria fra i quasi 4 milioni di abitanti, quella serba e quella minoritaria croata è assai complesso e proprio per questo supervisionato dall’ONU, a conferma di quanto precaria sia la composizione di tale eterogeneità etnica di una nazione “costruita” a tavolino.
Ed infatti da qualche anno Mirolad Dodik, leader della Srpska e con posizioni apertamente filo-russe, opera con intenti scissionistici sempre più marcati, propagandando una nuova Costituzione che porrebbe fine all’attuale assetto istituzionale, abbattendo così gli accordi di Dayton. Dodik è stato per questo condannato a un anno di prigione e interdetto dai pubblici uffici per sei anni. Ma lui, rifugiatosi a Banja Luka e sostenuto da Mosca, non ha alcuna intenzione di farsi prelevare dalla polizia di Sarajevo. E naturalmente i suoi sodali sono pronti a difenderlo, con tutto quello che da ciò potrebbe derivare.
Insomma, nell’insieme i Balcani confermano quella loro eterna condizione di instabilità oggi resa più preoccupante dai venti di guerra che spirano anche sul suolo europeo.