I fondamenti antropologici e politici per una visione democratica

Pubblichiamo il testo della relazione che il nostro direttore ha tenuto il 4 giugno all’Istituto Sturzo nell’incontro promosso dall’Ufficio “pastorale sociale, del lavoro e cura del creato” del Vicariato.

C’è la libertà, al cuore della democrazia. Ce ne ricordiamo a fatica per uno strano sortilegio. Un po’ sembra scontato ma un po’ sorprende, visto che la questione in sé contempla la difficoltà di una sfida, specie nelle fasi di cambiamento. La libertà non è un fatto bensì una conquista, ovvero una sollecitazione intellettuale e morale interna al dinamismo che anima la coscienza dell’uomo, determinandone l’azione nel mondo. La si può dividere in due parti, una positiva e l’altra negativa: infatti, un conto è la “libertà liberante”, principio e motore di liberazione personale e collettiva, altro è la “libertà egocentrica”, per la quale l’individuo si specchia in un’immagine di autosufficienza e rivendica il suo imperio, trascurando limiti e responsabilità. Pur con sfumature di vario tipo, questa polarizzazione tiene banco. Ne deriva allora una considerazione che intercetta e interpella, ogni volta in modo nuovo, il dover essere dei cristiani: e cioè che la vera libertà s’accompagna sempre alla giustizia e alla solidarietà, costituendo il fattore che impedisce alla prima di perdersi nel giacobinismo dei diritti e alla seconda di degenerare nel corporativismo delle aspettative. 

Nella storia del pensiero l’idea greca di uomo, animale sociale e razionale, è stata successivamente ampliata e superata. Tommaso ha messo in chiaro come la definizione di “animale politico” (non semplicemente sociale) fosse più adeguata a rappresentare l’uomo strettamente legato alla sua comunità. Pertanto, quello che chiamiamo animale politico è anche, secondo la formula dell’Aquinate, “eminentemente comunicativo” perché naturalmente capace di relazionarsi con altri e di mettere in comune i beni della vita. È un dato iscritto nella condizione umana alla quale, infine, pertiene la necessità di un principio direttivo a sostegno e tutela della civile convivenza. Questa regola comporta l’identificazione dell’autorità, sebbene di un’autorità che non può prescindere dalla “libertà naturale” dell’uomo, non avendo egli, dopo la Caduta, perso tutto ma solo i doni preternaturali e tra questi evidentemente la vicinanza all’Amore assoluto, fonte di piena libertà. Ecco la differenza dalla concezione che stabilisce la necessità del salto da una condizione all’altra: non esiste un prima e un dopo, alla Rousseau, perché in origine l’uomo dello stato di natura in sé è già sociale o più precisamente politico.  

Un riverbero intenso di questa visione antropologica, foriera di disposizioni adatte a conformare i rapporti tra uomo e Stato secondo regole di libertà pluralismo e tolleranza, si avrà nell’opera matura del neo tomista Maritain.

 

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