Si conosce poco il De Mita della politica estera. L’autore aiuta a colmare questa lacuna con i suoi ricordi di diplomatico. A Brasilia e Washington i due incontri ufficiali a distanza di quindici anni.
Giorgio Radicati
La nuvola letteraria levatasi dopo la triste dipartita di Ciriaco De Mita, sotto forma di varie rievocazioni della sua lunghissima carriera politica, si è ormai dissipata. Mi sembra, pertanto, il momento di narrare due ricordi personali sulla figura dello statista di Nusco che, seppur marginali, confermano e contribuiscono a mettere meglio in risalto la sensibilità, competenza e fiuto politico del leader di razza.
Brasilia, Estate 1973.
Agli inizi degli anni ’70, il Brasile era conosciuto in Italia soprattutto per il calcio, le mulatte e il caffè. Infatti, Il fenomenale Pelè si presentava come un autentico mito del football; le mulatte come donne bellissime, sensuali e instancabili danzatrici di samba; il “cafesinho” come la famosa gustosa bevanda, servita quotidianamente per soddisfare il palato di milioni e milioni di persone in ogni angolo del pianeta. In piena estate tropicale, il popolo brasiliano celebrava il Carnevale, grande festa pagana, espressione insuperabile della gioia di vivere collettiva, cui gli italiani guardavano solitamente con malcelata curiosità e grande desiderio di parteciparvi.
Ero approdato a Rio de Janeiro nel gennaio di quell’anno e inviato subito (mio malgrado) a Brasilia, la nuova capitale, dove da poco tempo era stata trasferita l’ambasciata. A quell’epoca, le relazioni fra l’Italia e il Brasile non potevano definirsi esemplari. Il paese era governato dai militari, che nel 1964 avevano conquistato il potere con un colpo di stato. A Roma, la sinistra condizionava le scelte di fondo del governo e per questo le relazioni tra le due capitali erano state ibernate in attesa di tempi migliori (contrariamente a quanto altri governi europei facevano…). Di conseguenza, niente visite ufficiali e molto scarsi anche i contatti diplomatici.
Brasilia era ancora una città molto artificiale, pur celebrando il tredicesimo anniversario della sua inaugurazione, avvenuta il 21 aprile del 1960. Era stata edificata in poco più di due anni per volontà e su impulso del presidente Juscelino Kubischek: un’impresa notevole, essendo l’area prescelta praticamente disabitata, distante oltre 1200 chilometri da Rio e S. Paolo e praticamente priva di vie di comunicazione stradali con il resto del paese. Un’enorme quantità di materiale da costruzione era stata addirittura trasportata in aereo e migliaia di tecnici e maestranze vi erano, in breve tempo, affluiti da ogni lato, montando un gigantesco cantiere edile e costituendo una speciale società autogestita, regolata cioè da un codice di comportamento costruito sull’esperienza quotidiana.
Al mio arrivo, la città era un agglomerato di edifici, dove risiedevano e si aggiravano migliaia di persone con la mente e il cuore altrove. Automi distratti, inconsapevoli artefici di una realtà destinata a consolidarsi soltanto con l’avvento delle future generazioni. La città era carente di importanti servizi pubblici come pure di aree commerciali comunemente intese. Il turista non vi sostava più di tre giorni, ricavando la netta impressione di trovarsi in una metropoli in fieri, con un’architettura originale (opera di Niemeyer), scarso traffico sulla rete urbana (ideata da Lucio Costa) e una popolazione che praticamente spariva soprattutto dopo le ore di ufficio. Insomma, una sorta di laboratorio urbano e sociale montato nel bel mezzo del desolato “planalto central”!
Il presidente in carica era il gen. Garrastazu Medici. Il paese era ancora sulla cresta dell’onda favorevole iniziata nella seconda metà degli anni ’60. L’economia andava a gonfie vele con un aumento del reddito nazionale di poco inferiore al 9%, dopo aver toccato punte dell’11%. Si parlava di “miracolo brasiliano”, paragonandolo a quello giapponese di pochi anni prima. Le esportazioni erano in continua ascesa e il Ministro delle Finanze Delfin Neto aveva introdotto le mini svalutazioni della moneta, un tecnicismo che manteneva alta la crescita dell’economia e stabile il valore del cruzeiro.
L’ambasciatore italiano – il conte Ludovico Barattieri di S. Pietro (discendente dell’omonimo generale sconfitto ad Adua nel 1895), persona intelligente, ma irascibile e sempre molto polemico – mi informò dell’arrivo del ministro dell’Industria Commercio e Artigianato, Ciriaco De Mita, con un breve ironico commento, intriso di scetticismo: “Cosa verrà a fare? Probabilmente turismo, vista la scarsa attenzione che il patrio governo riserva di questi tempi al Brasile…”.
De Mita si era dimesso soltanto pochi mesi prima dalla carica di Vice Segretario della DC (durata quattro anni), in occasione dell’accordo di Palazzo Giustiniani tra Moro e Fanfani, che aveva determinato la fine del governo Andreotti. In quel momento faceva parte del quarto governo Rumor. La sua visita di tre giorni fece cambiare totalmente idea all’esperto diplomatico. De Mita dimostrò subito grande conoscenza del Brasile ed interesse, rilevando come il paese avesse assunto ormai un notevole peso in seno alla Comunità internazionale e distanziato gli eterni rivali argentini (alle prese con l’ennesima profonda crisi politica ed economica). Aveva facilmente accesso ai finanziamenti della Banca Mondiale (grazie anche agli Stati Uniti) e le principali capitali europee facevano ponti d’oro per aumentare, su base di reciprocità, il volume degli scambi economici e commerciali anche in virtù di specifici accordi di cooperazione.
De Mita era perfettamente al corrente della politica estera brasiliana, impegnata ad avviare un aperto dialogo ad Est come ad Ovest, adottando un comportamento definito “pragmatismo responsabile”, ma non nascondendo l’ambizione di assumere anche la “leadership” dei paesi in via di sviluppo. Era convinto che l’Italia dovesse prendere esempio dagli altri partners europei per collaborare con il Brasile al fine di favorire la nostra economia, piuttosto che escluderla per la presenza dei militari al potere, pratica del resto ancora molto diffusa all’epoca nel sub continente americano. L’attuale – egli disse – è una fase destinata a passare, mentre le relazioni storiche tra i due paesi rimarranno, esaltate oltre misura dai vincoli speciali costituiti qui dalla presenza di milioni di italiani di seconda e terza generazione emigrati.
Proprio in quei giorni un brillante economista di origine italiana, Carlos Geraldo Langoni, sosteneva che ragioni obiettive spiegavano l’aumento della diseguaglianza della distribuzione della rendita durante la fase di crescita accelerata del paese, ma che nel lungo periodo quella stessa crescita avrebbe consentito ai ricchi di arricchirsi di più, ma anche alle classi più povere di migliorare il proprio reddito. De Mita, cui avevo riportato l’argomentazione, si limitò ad osservare, scuotendo in maniera scettica la testa: “Lungo periodo…e nel frattempo i più poveri debbono campare con un reddito minimo di 60 dollari al mese…?”.
Nelle conversazioni ufficiali De Mita sparse ottimismo e voglia di costruire, suscitando in tutti gli interlocutori un rinnovato interesse per il nostro paese, confermato anche dai commenti che ebbi modo di raccogliere nei corridoi dell’Itamaraty dopo la sua partenza. Soltanto pochi mesi dopo De Mita si trasferiva al Ministero del Commercio Estero e poi al dicastero del Mezzogiorno nei governi Moro terzo e quarto (1976-79). Nel frattempo, ebbe luogo (per pura coincidenza?) l’avvicendamento a Brasilia dell’ambasciatore Barattieri con Enrico Giglioli, considerato una grande vecchio amico del Brasile, e le relazioni tra Roma e Brasilia ricominciarono ad intensificarsi…
Washington, Primavera 1988.
Tornai a vedere De Mita quindici anni dopo. L’incontro avvenne a Washington, quando arrivò in visita ufficiale, in veste di Segretario della DC e Presidente del Consiglio. Era all’apogeo della sua carriera politica, dopo aver promesso (ed in parte attuato) un ricambio generazionale nel partito nonché lo scioglimento delle correnti, presentandosi come un politico “tecnocratico”, aperturista e moderno, contrario all’alleanza “remissiva” con i socialisti. Era stato rieletto alla segreteria del partito con l’80% dei voti e, nell’aprile del 1988, aveva finalmente assunto la guida di un governo pentapartito (con De Michelis suo vice), dopo aver superato un veto socialista prolungato nel tempo. Era reduce, infatti, da una lunga e sfibrante contesa con gli altri notabili democristiani, mentre all’esterno Bettino Craxi, rancoroso per aver dovuto lasciare Palazzo Chigi dopo tre lunghi anni di governo, continuava, nonostante tutto, a non rendergli la vita facile.
Lo ricevette l’ambasciatore Rinaldo Petrignani, uno degli ultimi “grand commis” degli Affari Esteri (nella cui squadra occupavo il posto di Primo Consigliere). A Washington De Mita ebbe una accoglienza degna della sua funzione e del prestigio che l’Italia – allora quinto paese più industrializzato del pianeta – godeva negli Stati Uniti, tanto che fu ricevuto con tutti gli onori dalle più alte cariche dello stato. Alla Casa Bianca, Ronald Reagan stava ultimando il suo secondo mandato e, pur essendo in fase calante, era ancora molto popolare per avere messo l’URSS di Gorbachev all’angolo ed imposto al paese la ricetta liberistica in economia, dando piena fiducia all’iniziativa privata, ed incassato notevoli dividendi politici. Insomma, unanimemente riconosciuti erano i successi da lui ottenuti in economia e politica estera.
In una conversazione privata a Florence House, la sontuosa residenza dell’ambasciatore italiano, ricordo che De Mita criticò il presidente americano per non preoccuparsi troppo di un razionale utilizzo degli ammortizzatori sociali al fine di mitigare la crudele competizione insita nell’economia di mercato e di avere, conseguentemente, troppo allargato la forbice tra la fascia sociale dei ricchi e dell’alta borghesia e quella dei poveri. Lo elogiò, invece, per avere sfidato l’URSS e dimostrato che Mosca era ormai diventato un gigante dai piedi di argilla, restituendo al popolo americano quell’orgoglio che i quattro sciagurati anni della presidenza Carter avevano fortemente intaccato.
Quindici anni non erano trascorsi invano…La lotta politica lo aveva temprato. Comparandolo con il politico che avevo conosciuto in Brasile, lo trovai più maturo e sicuro di sé, carismatico, convinto nei propri mezzi e desideroso di realizzare il piano politico che aveva a lungo coltivato nelle stanze di Piazza del Gesù: fare della DC un partito aperto alla società civile e dell’Italia un paese moderno al passo con i tempi. Egli aveva forse perduto almeno parte di quell’idealismo profetico che aveva mostrato di possedere sull’altopiano brasiliano e cominciato ad adottare il “pragmatismo responsabile”, di cui avevamo allora discusso e che i generali brasiliani avevano assunto come stella polare nella loro perigliosa navigazione al timone del paese. La lotta politica che lo aveva visto protagonista in quegli anni lo aveva trasformato in indomito combattente di razza, consapevole però che i successi ottenuti fino a quel momento non potevano in alcun modo garantirgli indefinitamente la posizione apicale che occupava.
Glielo lessi nello sguardo rilassato che mi lanciò quando alla fine della visita, al momento del commiato in aeroporto, gli sussurrai sorridendo: “Good Luck, Mr. President”. Un anno dopo, nell’arco di pochi mesi, De Mita era prima costretto a cedere la Segreteria del partito a Forlani (in occasione del XVIII Congresso democristiano) e poi, durante l’estate, a lasciare la Presidenza del Consiglio ad Andreotti. Terminava così il suo tentativo di rinnovare in profondità la DC (di cui si avvertiva da tempo la necessità), alla vigilia del crollo dell’impero comunista, che avrebbe mutato gli equilibri geopolitici internazionali e lo stesso assetto politico dell’Italia, terremotato poi da Tangentopoli.
Giorgio Radicati, Ambasciatore.