Malgrado qualche nostro politico finga di non essersene accorto, è indubbio che i paesi dell’Europa occidentale, specificatamente i Fondatori della Comunità Europea e quelli dell’area di influenza inglese, dal dopo guerra alla crisi del 2008, abbiano goduto di elevato benessere sia economico che sociale.

E’, quindi, ingiusto ed immotivato incolpare l’idea di Europa per la crisi del 2008, dove, invece, i paesi non hanno saputo cogliere le opportunità offerte dalla globalizzazione nè dalla rivoluzione digitale che è stata poco incisiva nei sistemi produttivi e nei servizi sociali, togliendo certezze e diffondendo timori ed insoddisfazioni, anche grazie alla miopia ed all’egoismo delle cosiddette politiche del rigore.

Da qui, soprattutto in Italia, nasce la domanda di nuovi equilibri economici e sociali.

Per realizzarli, occorrono più elevati livelli di produttività e di competitività internazionale. Nonostante questo obiettivo sia stato programmato dai partiti di governo e reclamato a gran voce da quelli dell’opposizione, si è fatto poco. Il Paese è sostanzialmente fermo da decenni. A questo proposito va evidenziato come sia i sindacati che le corporazioni abbiano bloccato di fatto le riforme reali, dato il ruolo importante, nel bene e nel male, che hanno svolto le organizzazioni dei datori di lavoro e dei lavoratori, protagonisti entrambi del corporativismo che ha caratterizzato, dagli anni sessanta fino ai giorni nostri, le scelte di politica economica dei grandi partiti.

In questi anni, in particolare, vi è stata un’evidente compiacenza di tutte le forze politiche e dei sindacati (al di là delle roboanti dichiarazioni) verso una “moderata” evasione fiscale pur di favorire i consumi: operazione che nei fatti non ha favorito il sistema produttivo, che, invece, avrebbe assoluta necessità di innovazione tecnologica e gestionale, con l’indispensabile corollario di servizi pubblici efficienti e poco costosi.

Va affrontato anche il tema delle aziende statali, comunali e regionali, pensate per gestire, secondo logiche di interesse generale e non di profitto, i servizi pubblici indispensabili per il bene comune; aziende che sono diventate, invece, uno strumento iniquo per  colpa di una gestione clientelare e inefficiente, soggetta a condizionamenti dei partiti e dei sindacati.

Questo stato di cose è andato bene anche al sistema imprenditoriale, che ha beneficiato di lucrose commesse.

In quest’analisi sulla carenza di investimenti strutturali emerge un tema che ha caratterizzato non solo le vicende economiche italiane, ma anche quelle politiche.

Dal dopo guerra in poi, le economie più avanzate, a cominciare da quella tedesca, hanno fatto investimenti significativi in ricerca, in tecnologie, in servizi pubblici, nell’amministrazione dello Stato e degli Enti Locali. Hanno investito nella formazione. In Italia si è data, invece, priorità al sostegno dei consumi con politiche di contribuzione a pioggia e di “diffusa elusione” fiscale, come già detto.

Appare quindi chiaro come le linee di politica economica e sociale a sostegno della domanda a breve periodo abbiano determinato un effetto di “blocco” della crescita non solo quantitativa, ma soprattutto qualitativa dell’economia italiana, come emerge con evidenza anche dalla lettura dei vari indici Istat.

E’, dunque, indispensabile uscire dalla vecchia superata governance del consenso sociale per passare a politiche di sostegno  dei nuovi sistemi di produzione ed ai conseguenti nuovi modelli di welfare, che tengano in conto maggiormente anche della sostenibilità ambientale.

Siamo di fronte ad una potenziale svolta radicale. Può partire dal nuovo Ministero dell’Innovazione? Per il nuovo governo è una grande opportunità.