I Popolari e la costruzione di una prospettiva di pace

La ricerca della pace necessita anche di alimentare un dibattito su quale idea di ordine internazionale si intende perseguire oltre la guerra, dato che il conflitto ucraino non potrà esser risolto con le armi, se non con avventure senza ritorno.

Di fronte all’aggressione della Russia all’Ucraina ci si è chiesti più volte come possano verificarsi ancora guerre, invasioni, occupazioni nel XXI secolo. Si è trattato purtroppo solo dell’ultima aggressione in ordine di tempo in questo secolo. E ogni volta che la via delle armi sembra soppiantare la diplomazia molte coscienze individuali, realtà significative della società civile, anche del mondo cattolico, si pongono delle domande.

 

Domande alle quali credo che i Popolari non possano dare risposte né populiste da un lato, né di convinzione che la guerra costituisca la soluzione ai problemi, dall’altro.

Un conto è il piano della coscienza individuale, un altro quello della società civile, dove ogni soggetto è libero di interrogarsi su quale sia la logica da seguire o da respingere di fronte allo scontro che si sta consumando nell’Europa orientale.

 

Un altro conto ancora è quello della politica e delle istituzioni dove ci sono degli impegni e delle responsabilità nei confronti del sistema di alleanze nel quale il nostro Paese ha scelto di collocarsi. E soprattutto nei confronti di una amicizia storica, salda e centrale, dell’Italia con gli Stati Uniti.

 

Per questo credo che sia largamente condivisa tra i Popolari la necessità di prendere le distanze, al di là del merito, da iniziative e dichiarazioni che in modo speculare cercano di fare passare o come colpe del governo di turno quelle che sono necessità imposte da una complicata situazione internazionale, o, viceversa, che cercano di mettere in dubbio l’atlantismo dei partiti di opposizione. Le decisioni derivanti dal sostegno, anche militare, all’Ucraina sono responsabilità del Paese intero, unito sulla linea indicata e tenuta dalle massime autorità competenti.

 

Ciò detto, in modo chiaro e inequivocabile, rimane aperta la questione di come accompagnare la necessaria solidarietà atlantica, anche con una discussione sulla definizione di ciò che seguirà alla guerra, su quale idea di ordine internazionale si intende perseguire. Credo che i Popolari possano e debbano cercare di qualificarsi maggiormente in questo tipo di dibattito. Un dibattito tutt’altro che velleitario in quanto giorno dopo giorno si impone più nitida la constatazione che il conflitto ucraino non può esser risolto con le armi, se non con avventure senza ritorno, e che la ricerca di un largo consenso fra le nazioni sul nuovo ordine globale multilaterale è condizione imprescindibile per la pace. Una volta rotto il ghiaccio su questo tema poi si creano le condizioni per disinnescare i conflitti regionali, come insegna il depotenziamento della guerra nello Yemen seguìto ai recenti accordi, propiziati dalla Cina, fra Arabia Saudita e Iran.

 

Perché l’ostacolo principale alla pace in questo lungo travaglio verso il mondo multipolare rimane quello costituito da quegli ambienti che a oriente come a occidente coltivano disegni imperiali. 

 

Nella nostra parte di mondo questi gruppi di interesse (ideologici come i neocons, economico-finanziari) sembrano riuscire ancora a condizionare l’informazione e la politica americana, e dunque dell’intero Occidente, nel tentativo di mantenere una loro anacronistica influenza sulle questioni e sulle istituzioni globali.

 

Per tale motivo spingono i governi occidentali a sanzionare, espellere, fare guerra a chiunque si opponga a un tale disegno e rivendichi il riconoscimento di una strutturale multipolarità e diversità come sistema di governance globale. Ma per quanto tempo potremmo continuare a combattere contro il resto del mondo che è sette volte più grande dell’Occidente per popolazione?

 

Dobbiamo discutere allora anche di un cambio di mentalità richiestoci dal mondo attuale. L’Occidente non è più la misura di tutto, ci si deve abituare al confronto, al rispetto delle diversità, a rinunciare al doppiopesismo, al fatto che nel mondo ci siano centri concorrenti, non per questo nemici, con i quali è possibile raggiungere accordi ragionevoli, di reciproco vantaggio. Emblematico in tal senso il caso della Tunisia, sollevato opportunamente al G7 di Hiroshima dal premier Giorgia Meloni. Essendoci ormai un sistema monetario distinto e complementare a quello occidentale, la Tunisia, bisognosa di un ingente prestito internazionale, può ora scegliere tra Fmi e Ndb (Nuova Banca di Sviluppo di cui oltre ai Brics fanno parte anche altri stati come Uruguay, Egitto, Bangladesh). Impuntarsi nel subordinare all’accettazione di condizioni capestro l’ottenimento del prestito Fmi, non farà altro che spingere il Paese nordafricano verso i Brics.

 

Dunque, si può agire per illuminare l’altra faccia per la pace, che è quella costituita da un necessario aggiornamento di visione.

 

E nel contempo dobbiamo confidare nel fatto che nella politica americana verrà il tempo nel quale a chi ha fatto adottare agli Stati Uniti le rovinose strategie degli ultimi trent’anni, verrà presentato il conto. Il bilancio è pesantissimo per gli Stati Uniti, sia in Europa che nel Medio Oriente, che in Africa.

 

Dobbiamo scommettere sul fatto che gli Stati Uniti sapranno stupire ancora il mondo e che saranno loro a guidare l’Occidente a ritagliarsi un ruolo da protagonista nel nuovo ordine mondiale multipolare.

 

Ma nel frattempo, in attesa che si compia questa svolta nella politica americana, la guerra in Ucraina purtroppo pare destinata a continuare, imponendo a tutti almeno una responsabile e concreta ricerca della riduzione dei danni, preparando nel contempo le condizioni attraverso cui il conflitto in corso non possa più avere ragion d’essere.