Muta il rapporto tra la ricchezza finanziaria, in primis azioni e altri titoli di borsa, e le riserve auree. I cittadini comuni e le piccole imprese, se non falliscono, vendono, anzi, svendono, i loro beni a chi può comprarli. E fra questi “beni” c’è l’oro.
Da dove arrivano i soldi protetti in Svizzera? Da dove arriva la sua riserva d’oro? La domanda non è peregrina ma potrebbe essere proposta per qualsiasi nazione occidentale. Al tempo della guerra Russia/Ucraina, calano le borse, mentre salgono i prezzi delle materie prime. Torna in auge il bene rifugio per eccellenza: l’oro. I contemporanei Goldfinger (ricordando il personaggio di un film della serie “Agente 007”, del 1964), si sfregano le mani. L’effetto Ucraina gonfia il prezzo dell’oro, e più il conflitto dura, più il prezzo del metallo nobile sale alle stelle. Infatti, in queste ore, il prezzo dell’oro 18 carati è salito sopra ai 40,00 euro al grammo. Quello dell’oro 24 carati invece oltre i 54,00 euro al grammo.
Le azioni, strumenti finanziari prediletti, hanno sofferto dello stress geopolitico, acuito dalla pandemia prima, e dalla guerra ora. Ma non è stato sempre così. Infatti, il sistema aureo (gold standard), in cui il valore della moneta è dato da una quantità di oro fissata per legge, è stato il principale sistema monetario dal 1870 al 1914. Voluto dall’Inghilterra, ed adottato in seguito dalle principali economie occidentali, tale sistema consentiva la stabilità economica interna e quella commerciale tra le nazioni, consentendo alla moneta di essere facilmente convertita in oro, e viceversa. Essendo certo il valore in oro assegnato da un Paese alla propria moneta, gli scambi internazionali erano sicuri ed agili: la lira, ad esempio, aveva un controvalore in oro pari a 0,29 grammi. Quello della sterlina era di 7,32 grammi. Dunque occorrevano 25,24 lire per una sterlina.
I prezzi a quel tempo erano stabili, essendo ridotto il rischio di inflazione dovuto al costo della materia prima. Tuttavia, questo sistema di cambi fissi tra le monete nazionali non consentiva una facile gestione dei deficit commerciali tra le suddette nazioni. Per questo motivo, quando un Paese si trovava nella necessità di mantenere inalterato, costante nel tempo, il valore della sua moneta, doveva ridurre la moneta in circolazione: logica conseguenza era la riduzione dei salari e la diminuzione dei prezzi: la deflazione.
La spesa pubblica era limitata dall’obbligo di non “sperperare”, di non spendere oltre la riserva in oro che ogni Paese aveva deciso di destinare per coprire la moneta in circolazione. Un sistema efficace fin quando il mondo non cominciò ad accelerare, così come le sue crisi. Nel 1914 i cittadini tedeschi, per paura della guerra imminente, esercitarono il loro diritto di convertire i loro risparmi in oro. La banca centrale tedesca registrò in poche settimane un calo della propria riserva aurea. Decise quindi di sospendere la conversione della moneta in oro. Era il 13 luglio del 1914. Gli altri Paesi occidentali, in breve tempo, la seguirono. La Prima guerra mondiale portò all’interruzione degli scambi commerciali tra nazioni nemiche. Ciò condusse a una decisione obbligata, quella del “corso forzoso” della moneta, che la disgiunse dal controvalore in oro. La fine della parità aurea. Il corso forzoso funzionò, soprattutto per i vincitori della guerra; ma la fine della Grande Guerra pose tutti davanti la necessità di ricostruire il commercio internazionale.
Nel 1920 la nascita del “Gold Exchange Standard” non obbligava la moneta di una nazione alle proprie riserve, garantendo invece la convertibilità in una moneta ancorata all’oro, come il dollaro statunitense o la sterlina, che adottò il “Gold Bullion Standard”. Il nuovo sistema sembrò funzionare, fino alla svalutazione della sterlina, nel 1931, e del dollaro, nel 1933. Tali svalutazioni decretarono la fine di quel sistema e la ratificazione degli accordi di Bretton Woods del 1944. A loro volta, quest’ultimi, vennero infranti dalla decisione del Presidente Nixon di porre fine nel 1971 alla convertibilità del dollaro in oro.
Con la crisi finanziaria del 2007-2008 le nazioni europee hanno attinto ai propri “gioielli di famiglia” per riempire le casse dello Stato. In piccolo, anche le famiglie lo hanno fatto. Chi in casa aveva un poco di oro lo ha venduto, desideroso di liquidità. Nel 2000 l’oro costava 7,00 euro al grammo. Nel 2011 costava 35,00 euro al grammo. Oggi è salito a 55,00 euro al grammo. Ma chi ha saputo arricchirsi di più è colui che si è tenuto il proprio oro, magari comprandosene dell’altro in sovrappiù.
Se consideriamo gli Stati, ad oggi gli Usa sembrano possedere il primato di riserve auree: oltre ottomila tonnellate in lingotti. Segue la Germania, con tremila tonnellate d’oro. Gli oligarchi che posseggono ingenti quantità di oro si guardano bene da rendere pubbliche le loro finanze, lasciando gestire il proprio portafoglio aurifero a società per azioni. Grandi miniere d’oro estraggono ancora il prezioso minerale dalle viscere della terra. La più grande miniera è in Sudafrica, a Johannesburg. La seconda in Nevada, negli Stati Uniti. In Sudafrica i magnati delle miniere si guardano bene di lasciare il posto, sebbene Ivan Glasenber sia stato “costretto” al pensionamento di recente, da amministratore delegato di Glencore, multinazionale con sede in Svizzera e impegnata nel commercio delle materie prime che, con la pandemia prima e la guerra in Ucraina adesso, stanno aumentando il loro costo.
I cittadini comuni e le piccole imprese, se non falliscono, vendono, anzi, svendono, i loro beni a chi può comprarli. E fra questi “beni” c’è l’oro. È proprio il caso di citare il titolo di quel celebre film del 1974, con Alberto Sordi: “Finché c’è guerra c’è speranza”.