L’Africa non ha solo bisogno di grandi investimenti nello sviluppo infrastrutturale. Servono anche strutture educative, servizi sanitari e sociali, in primo luogo per infanzia e donne. Allora, va sostenuta la società civile, l’implementazione di sistemi democratici stabili e di apparati pubblici affidabili, nonché il riconoscimento di diritti civili e umani a volte negati.
Giulio Albanese
Chiunque oggi abbia una rudimentale conoscenza della geopolitica internazionale non può fare a meno di riconoscere la centralità dell’Africa. Le ragioni sono molteplici e meritano un’attenta disanima.
Anzitutto occorre sottolineare la crescente attenzione che i grandi player mondiali rivolgono al continente, anche se poi spesso si evidenziano delle competizioni economiche di matrice straniera in controtendenza rispetto alle istanze delle sfide globali. Ecco che allora la cooperazione con l’Africa rappresenta per molti governi un asse strategico irrinunciabile, soprattutto per quanto concerne l’approvvigionamento delle cosiddette commodity. Al contempo, però, all’interno dei singoli Stati africani, in particolare nella macro-regione subsahariana, si assiste ad una crescente parcellizzazione degli interessi causata da attori esterni i quali prediligono, in molti casi, il cosiddetto bilateralismo. Di conseguenza, chi decide di investire nel continente si prefigge di consolidare il proprio interesse nazionale attraverso un’espansione della propria agenda politica nei territori del continente africano.
Tuttavia la competizione nell’ultimo decennio ha assunto proporzioni sempre più globali tanto da confermare la presenza, con declinazioni diverse, di attori consolidati (come Cina, Stati Uniti, Francia…) o di segnare la scesa in campo di alcuni in costante ascesa (Russia, India e Turchia su tutti). Una centralità geo-strategica, quella africana, trascurata spesso dai media internazionali, ma in continua evoluzione rispetto ad altri e più noti scenari di crisi e di competizione come, ad esempio, quello mediorientale.
Che in Africa si giochi il futuro del mondo è peraltro reso evidente dalle dinamiche demografiche, economiche e sociali che ridisegnano il profilo del continente africano. Da oggi alla fine del secolo la popolazione africana passerà da 1 miliardo 300 milioni a quattro miliardi su una popolazione mondiale che nel 2100 sarà di 11 miliardi. Questo in sostanza significa che più di un terzo degli abitanti del pianeta saranno in Africa. Basti pensare che la Nigeria alla fine di questo secolo sarà il terzo paese a livello mondiale per dimensioni demografiche dopo India e Cina.
Le previsioni delle grandi istituzioni internazionali, prima che scoppiasse la pandemia di Covid-19 stimavano che circa la metà delle economie a più rapida crescita sarebbero state africane, portando con sé un’espansione della classe media e un incremento nelle capacità di spesa dei Paesi africani. Questa evoluzione socio-economica ha certamente subito una battuta d’arresto a causa della circolazione del Coronavirus che non solo ha penalizzato il già precario sistema sanitario continentale, ma ha frenato il commercio e incrementato il debito estero.
Ciò non toglie che la recente nascita dell’Area di libero scambio continentale africana (African Continental Free Trade Area, Afcfta nell’acronimo inglese) ha suscitato l’interesse di non pochi attori globali come la Cina, soprattutto in termini di commercio e investimenti. Per non parlare degli interessi securitari che investono la Coalizione internazionale Anti-Daesh. A questo proposito è bene rammentare che la linea di faglia tra Oriente e Occidente che un tempo era localizzata in Medio Oriente, oggi attraversa l’Africa da Meridione a Settentrione. L’azione espansiva di movimenti jihadisti nella fascia saheliana la dice lunga.
L’Europa — per contiguità territoriale, legami storici e intensità di relazioni — più di ogni altra realtà statuale deve essere attenta al futuro dell’Africa, anche perché tutto ciò che vi accade investe per induzione il continente europeo come i flussi migratori dimostrano. E in questo caso la vera sfida, prima ancora che essere politica, sociale o economica è culturale. Un salto di prospettiva certamente non scontato che richiede a ciascuno — europei e africani — di lasciarsi alle spalle stereotipi, pregiudizi e diffidenze. Il presente è già così carico di incognite che non ci consente ripiegamenti, recriminazioni o nostalgie. La sfida è costruire un futuro di sviluppo, diritti e benessere condiviso.
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