Ignesti: “il popolarismo è una riserva etica della nostra democrazia”

Il colloquio con Giuseppe Ignesti, professore emerito di Storia delle Relazioni internazionali (Lumsa)

Intervista già apparsa sul nostro giornale il 18 gennaio 2015

Il colloquio con Giuseppe Ignesti, professore emerito di Storia delle Relazioni internazionali (Lumsa), avviene in un giorno di lieto evento familiare per la nascita del primo nipotino. È naturale, perciò, che abbia la mente immersa nella. nuova e inesplorata condizione di nonno. Tuttavia, per insistenza e amicizia, l’intervista prende forma e non si arresta dopo breve. Dopo l’abbrivio, la conversazione poteva certamente continuare a lungo, più di quanto possa lasciare intendere la succinta trascrizione che qui di seguito trova spazio. Ignesti non si è voluto sottrarre al compito di rileggere il “suo” Sturzo.

Mi chiedevo se avessi ancora passione per il fondatore del Partito popolare. Ne hai studiato gli scritti, sei stato affascinato dalla sua opera: ora ti senti ancora “sturziano“?

Considero Sturzo una fonte preziosa, anche oggi, della “lezione possibile” del cattolicesimo politico. Ciò nondimeno, mi misuro come molti di noi con l’usura di quelle specifiche condizioni – storiche e culturali – che accompagnarono l’impegno pubblico di questo grande protagonista del movimento democratico dei cristiani del Novecento. Sappiamo bene che il contesto è mutato, dunque quel modello teorico e pratico, segnato dalla presenza organizzata in un partito di riferimento, non è più agibile per i cattolici d’oggi.  Per questo c’è il rischio di dimenticarsi di Sturzo.

Allora, come dobbiamo leggere la sua esperienza? Puoi dire cosa resta o non resta di essa? Malgrado la critica di questo metodo di analisi, in fondo è ciò che permette di sintetizzare una analisi necessariamente complessa.

Resta una certa idea di democrazia, vale a dire una visione ispirata ai valori morali cristiani della lotta per la conquista e l’organizzazione del potere. Il popolarismo è il progetto che incarna il senso più profondo della partecipazione dei cittadini, del loro desiderio e interesse a plasmare il progresso civile. In effetti, esso costituisce una riserva tuttora valida per dare alla democrazia energia e sostanza. Invece, del progetto sturziano non resta l’utopia – se così può dirsi – di un naturale passaggio, ancorché filtrato attraverso un processo di mediazione culturale, dal sociale al politico di ciò che l’istanza cristiana promuove. Le due dimensioni, nella odierna sensibilità cattolica, non si attraggono spontaneamente: sociale e politico si specchiano nella medesima acqua, ma non si congiungono in virtù di una meccanica disposizione d’animo. Il ponte creato da Sturzo, fino alla formazione nel 1919 del tanto agognato partito, non ha più ai nostri giorni il valore e la consistenza di una volta. Se non ha perso di legittimità, di sicuro ha bisogno di individuare nuovi punti di appoggio.

Tuttavia, non credi che il concetto di aconfessionalità, posto a base del partito sturziano, sia lo strumento ancora attuale di una proposta laica, che dando centralità al programma di partito (e di governo) rende immuni dagli integralismi e consolida il dialogo democratico? Di questi tempi…non è poco!

Sì, ne sono convinto. La linea della aconfessionalità aveva enorme forza allora, quando occorreva affermare di fronte all’autorità della Chiesa l’autonomia dei laici in politica, ma   ne ha persino più oggi come archetipo ideale nell’opera di contrasto all’esplosivo fenomeno del fondamentalismo politico-religioso. La riflessione di Sturzo sulla libertà come lievito delle relazioni tra Stato e Chiesa – titolo di una sua opera, considerata di straordinaria rilevanza, in cui traspare per altro un approccio filosofico rosminiano  – torna utile nel declinare un possibile modello di relazioni, civili e democratiche, nel nostro occidente multietnico e multireligioso. Una forza politica che ritornasse, appunto, alla lezione di Sturzo sulla aconfessionalità ne potrebbe ricavare feconde motivazioni per un progetto di interazione tra orientamenti ideali e costumi diversi, sempre nel rispetto di una superiore capacità di sintesi dell’autorità dello Stato.

Hai in mente, per caso, esempi e testimonianze di questo ritorno allo spirito sturziano?

Nutro qualche perplessità. Del resto, in generale, nell’attuale scenario italiano vedo scarsa propensione al recupero di solidi ragionamenti che attingano alle grandi esperienze della storia politica del nostro Paese. Il popolarismo, sotto questo profilo, condivide il rischio della comunicazione troppo immediata e semplificata, tipico della cosiddetta “società liquida”, oltre la quale non residua alcuna vera espressione di valori e programmi di vasto respiro politico. Invece devo dire che voci interessanti si levano, ancora una volta, dall’universo ecclesiale e religioso. Ho letto con interesse, proprio in questi giorni, l’intervista al padre francescano Pierbattista Pizzaballa, Custode di Terra Santa e Guardiano del Monte Sion. In particolare, nei confronti dell’Islam ha invitato a sviluppare valutazioni meno affrettate, così da evitare nuovi errori che si aggiungono ai vecchi, come nel caso della improvvida politica di sostegno delle potenze economico-militari dell’occidente alle vacue e ambivalenti “primavere arabe”. Realismo e discernimento: questo è il duplice connotato del suo messaggio, ricco senz’altro di stimoli e suggerimenti anche per una meditazione aggiornata attorno ai criteri della convivenza e della cooperazione nel vasto recinto democratico delle nostre società. Non voglio forzare i termini di questa bella riflessione di Padre Pizzaballa, ma con molto rispetto vi scorgo la ripresa sotto altre forme, con diverso impianto, del concetto sturziano di libertà e pluralismo. È un metodo nuovo, ma al tempo stesso antico, che oltrepassa il discorso astratto e formale sulla tolleranza civile di classico stampo democratico-liberale.

Dunque, malgrado l’approccio critico delle premesse, accrediti un’immagine di Sturzo in sintonia con le domande, le ansie, i bisogni del nostro presente…

Dobbiamo essere severi. Il punto debole della tradizione rappresentata dal popolarismo sta nella fiducia riposta con soverchia generosità nel metodo del dialogo e della partecipazione, come pure nella difesa dei meccanismi diretti a garantire l’equilibrio dei poteri. Quanta profondità e verità in questo approccio! Per contro, sotto i colpi della crisi, la fase che attraversiamo richiede capacità e rapidità di decisione. Da qui nasce l’attenzione verso il tema della leadership, perché dinanzi alle molteplici e gravi emergenze, dalla lotta all’incombente declino economico e alla congenita instabilità politica del Paese, solo una leadership a forte legittimazione diretta appare adatta a fronteggiare il pericolo. Tuttavia, non è meno evidente il rischio che questa democrazia d’investitura degeneri nel vuoto leaderismo, associato per giunta alla irruenza e confusione del plebiscitarismo. Per questo, a voler connotare il popolarismo di apprensione e solerzia per la costante possibilità di crescita della democrazia, sopravanza a dispetto delle circostanze asfittiche – vale a dire delle permanenti fragilità e irresolutezze del quadro post-democristiano – la bontà di un nuovo progetto politico intriso di fervida e consapevole  sensibilità cristiana. Qui risiede il nucleo di resistenza del popolarismo. Certo, di un popolarismo aggiornato, capace di aperture e innovazioni, non legato dunque alla mera ripetizione di ciò che è stato. Tutto questo è possibile, perché la riserva etica costituita da questa tradizione di pensiero e mobilitazione politica è indispensabile a far sì che nel processo di cambiamento, ora più che mai urgente, agisca un dato di coerenza e realismo a salvaguardia della stessa tenuta morale della nazione. Questa, in sintesi, è la qualità incorrotta del riformismo di matrice sturziana.