Il lavoro cambia e dunque cambiano le prospettive dei giovani

Si è diffusa l’idea che quando il lavoro manca o è a rischio si possa accettare qualsiasi cosa. Riportiamo ampi stralci della relazione tenuta a Roma, in occasione di un forum sul lavoro, dall’amica Padovano.

[…] Immersi nelle trasformazioni che negli ultimi decenni hanno investito gli assetti sociali, economici e produttivi del nostro Paese, riscontriamo come il lavoro sia radicalmente mutato e la flessibilità, così tanto decantata, si sia trasformata ben presto in precarietà e perdita dei diritti. Perdendo drasticamente la sua centralità, il lavoro ha perso appeal diventando un mero strumento utile a soddisfare bisogni materiali o semplice argomento di dibattito per specialisti: economisti, sociologi, fiscalisti.

La manifesta frammentazione del lavoro e delle aspettative non si è rivelato un liquido amniotico protettivo per i lavoratori sempre più differenziati fra garantiti e non garantiti, inclusi ed esclusi, soddisfatti e alienati. Dentro quest’ingranaggio che sembra stritolarci sono sempre più evidenti i rischi che questa situazione sta già generando con un aumento considerevole delle disuguaglianze nel nostro Paese dove la forbice sembra sempre più divaricarsi tra lavoro senza diritti e lavoro povero.
Ma di quale tipo di lavoro parliamo? Un lavoro “decente”, che Benedetto XVI, nella Lettera Enciclica Caritas in Veritate, così definisce: “scelto liberamente, che associ efficacemente i lavoratori, uomini e donne, allo sviluppo della loro comunità; un lavoro che, in questo modo, permetta ai lavoratori di essere rispettati al di fuori di ogni discriminazione; un lavoro che consenta di soddisfare le necessità delle famiglie e di scolarizzare i figli; un lavoro che permetta ai lavoratori di organizzarsi liberamente e di far sentire la loro voce; un lavoro che lasci uno spazio sufficiente per ritrovare le proprie radici a livello personale, familiare e spirituale; un lavoro che assicuri ai lavoratori giunti alla pensione una condizione dignitosa”.

Come fare per assicurare ciò? E qual è lo scenario internazionale che abbiamo di fronte?
Un dato da analizzare lo troviamo negli effetti creati dalla globalizzazione che hanno determinato una riorganizzazione nei processi produttivi con conseguenti riflessi sulla domanda di lavoro, la necessità della presenza sempre maggiore di stranieri che sopperisce alla tendenza all’invecchiamento della popolazione, la richiesta di aumento della partecipazione femminile al mondo del lavoro, che ha attivato cambiamenti sociali diretti all’affermazione di un’effettiva uguaglianza di genere e di salario, l’avanzamento del processo di automazione e robotizzazione, l’incremento dello sviluppo di forme di lavoro flessibile, sono parte e agenti dei cambiamenti sociali e organizzativi che stanno impegnando la società attuale.

Lo scenario internazionale con il quale il mercato del lavoro dovrà confrontarsi prevede che il 2% dell’attuale occupazione globale, pari a 14 milioni di posti di lavoro, è a rischio distruzione nei prossimi anni, a causa delle tendenze globali in atto dovute a: la transizione ecologica, le guerre che accerchiamo l’Europa, la trasformazione delle catene d’approvvigionamento e, non ultima, l’innovazione tecnologica.
Ora di tutto questo dobbiamo occuparci perché sono queste le trasformazioni che cambieranno la società e che saranno sempre più al centro dell’attenzione dell’analisi socioeconomica.
[…] Si è diffusa l’idea che quando il lavoro manca o è a rischio si possa accettare qualsiasi cosa. E la deroga rispetto ai diritti sanciti dai contratti collettivi è stata usata per mantenere i livelli occupazionali o mitigare i costi sociali delle ristrutturazioni aziendali, tema che aimè incrocia la sicurezza, con un impatto negativo rispetto alla fiducia di lavoratori e lavoratrici nella contrattazione collettiva e, più in generale, nel ruolo delle organizzazioni sindacali.
Questa situazione ha aperto la strada all’idea, ormai largamente diffusa nel nostro Paese, che il lavoro abbia sempre meno punti fermi e tutto può essere oggetto di contrattazione, revisione e adeguamento.

[…] In questa fase di transizione è tempo di un dialogo serio tra le generazioni! Perché sono proprio le nuove generazioni che stanno pagando un prezzo altissimo, in termini di accresciuto senso di inutilità e di esclusione, a causa della prolungata congiuntura economica negativa, dello sbilanciamento demografico verso età mature, della permanente difficoltà nell’inserimento lavorativo, dell’enorme incertezza rispetto ai percorsi professionali e alla possibilità di costruire una famiglia.
Ma come arginare questa progressiva precarizzazione delle certezze? Se far politica è ragionare di sistemi, il nostro obiettivo è quello di far funzionare il nostro, che ci è stato regalato, prim’ancora di incardinarne un altro che sembra poi non esserci, bruciando per questo un tempo prezioso che è l’unico bene che abbiamo. Quando la politica non investe sul potenziale di sviluppo che si apre, e qui il capitolo della formazione si aggancia inesorabilmente, è destinata a pagare un prezzo molto alto.

Per questo non è retorico chiedersi quale sia la società dei prossimi anni e quali le scelte da fare o come attrezzarsi per il futuro sapendo che la Costituzione, nell’art.1, fissa la nascita della Repubblica democratica sul lavoro.
…Di fronte a questo quadro, occorre porsi il tema del lavoro se si vuole ricostruire questo Paese, declinandolo in tutte le sue sfaccettature, interrogandosi se non sia giunto il tempo per avviare anche nuovi modelli organizzativi puntando sulla formazione, senza rinviare quello della sicurezza e dello sviluppo, che dovranno essere affrontati con grande realismo nella consapevolezza che il nostro, e solo, futuro sicuro è fuori dalle patrie: in Europa, inteso non più solo come orizzonte bensì come spazio politico.

[Roma, 18 ottobre 2023]