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sabato, 2 Agosto, 2025
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Il leader e la disintermediazione

La morte del partito politico e l’emergere del capo solitario: scenari di una democrazia senza mediazioni. Cosa ci racconta l’America di Trump?

Quando oggi si parla dell’avvento del leader carismatico, figura solitaria alla guida del partito politico postmoderno; quando si evoca la disintermediazione generalizzata e la fine di quell’associazione democratica chiamata “partito”, che storicamente ha mediato tra cittadini e Stato; quando si denunciano la postdemocrazia e la crisi profonda della rappresentanza politica, quasi sempre manca un’illustrazione concreta di ciò che si intende. Gli studiosi, gli editorialisti e persino i politici, spesso si limitano a concetti astratti.

Trump e l’onnipresenza del leader forte

Il paradigma più evidente viene dagli Stati Uniti. Chi osserva con attenzione non può non notare la frequenza ossessiva con cui il volto di Donald Trump domina le prime pagine, i telegiornali, i social. Quotidianamente lo vediamo in pose autoritarie, con toni arroganti e atteggiamenti prepotenti: posture che disegnano il profilo del capo che non sbaglia mai.

Accanto al suo ultraliberismo, si insinua un sovranismo subdolo e pericoloso, venato da un razzismo latente rivolto contro quei migranti che pure hanno costruito la storia americana. Sempre contro una democrazia globale e contro il multilateralismo collaborativo fondato sulla pace e sulla libertà. Così, dopo il mantra “prima il mercato, prima l’America, prima l’economia”, assistiamo al suo show quotidiano.

Le immagini di un potere senza mediazioni

Trump compare di continuo: al telefono, mentre firma ordini esecutivi, mentre mostra grafici sui dazi, spesso senza aver consultato il Congresso. Gioca al rialzo, come a poker, per ottenere 15 chiedendo 50, in cambio di un folle riarmo europeo contro un’ipotetica invasione russa o cinese. Lo si vede ricevere leader politici all’ingresso di casa, parlare nel suo studio ovale, recitare accanto a Zelensky, scendere dall’aereo e salutare da comandante in borghese, intimidire giornalisti in conferenza stampa, giocare a golf.

Ma non lo si vede mai – mai – nella sede di un partito (perché non esiste) né nel Campidoglio di Capitol Hill, dove si trovano Camera e Senato. Quel luogo sacro alla democrazia è stato invece assaltato da suoi sostenitori, poi liberati grazie a un suo decreto.

Una democrazia ridotta a pubblico

Tutte queste rappresentazioni sono rivolte a un unico destinatario: il pubblico. Non gli elettori, che dopo aver votato vengono spogliati di ogni influenza. Non i cittadini partecipi, ma i telespettatori passivi. La democrazia rappresentativa? Un concetto da manuale. Conta solo l’audience (Manin), che applaude. Ecco la “show-democracy” permanente.

Il precedente italiano: la discesa in campo di Berlusconi

Anche in Italia abbiamo vissuto una rivoluzione simile: la discesa in campo di Silvio Berlusconi, sostenuto dai propri media, alleato con Bossi e la Lega Nord secessionista. Forza Italia ha inaugurato il partito personale, decretando la fine delle sezioni territoriali e della militanza. La “democrazia del pubblico” – come la definì Manin – ha segnato davvero l’inizio della Seconda Repubblica. Ancora oggi ne viviamo gli effetti, mentre attendiamo invano una Terza.

Una speranza: tornare alla politica dal basso

Siamo ormai nella fase matura della leadership carismatica e della democrazia disintermediata. L’unica speranza possibile, oggi, è scommettere sulla riuscita di esperimenti come la “Rete di Trieste”, che promuovono la partecipazione dal basso, il ritorno dei cittadini come veri intermediari della politica. Una strada difficile, ma necessaria, per salvare la democrazia dalla solitudine del capo.