Il 7 ottobre 2023 è una data spartiacque nella ultradecennale vicenda mediorientale. L’eccidio perpetrato da Hamas e in un qualche modo (anche se non sappiamo esattamente come) condiviso con l’Iran degli ayatollah ha determinato nello stato aggredito, Israele, una ferrea volontà distruttiva dei propri nemici. Che era già insita in esso, e che quindi va oltre il desiderio di vendetta, ma che in buona parte era tenuta compressa.
Israele non accetta la solita affermazione “due popoli, due stati” declamata in occidente con riferimento al territorio palestinese. Perché non vuole uno stato palestinese ai propri confini. Al tempo stesso non può dimenticare – e quindi si attrezza di conseguenza, in una logica solo guerresca – che i suoi nemici dichiarati (l’Iran, appunto, e i suoi cosiddetti proxy, movimenti terroristici islamici di varia dislocazione) ne auspicano attivamente niente meno che l’estinzione.
È accaduto così che il dipanarsi degli avvenimenti seguiti a quella nera mattinata di morte avvenisse nella progressività degli stessi e con un obiettivo finale, ben chiaro ai governanti di Tel Aviv, ma in una certa misura a tutti gli israeliani, inclusi quanti al governo di Benjamin Netanyahu sono ostili: la rottura permanente del “Fronte della Resistenza” costruito negli anni da Teheran con la conseguente ipotesi di una successiva caduta del regime sciita. In questo disegno, naturalmente, non è previsto in alcun modo che il nemico iraniano possa dotarsi dell’arma nucleare. A costo di trasformare l’attuale guerra a intermittenza in guerra totale.
Quindi Israele ha certo immediatamente invaso Gaza, con le orripilanti conseguenze che il popolo di quella disgraziata terra ha dovuto subire e sta tuttora subendo. Ha certo, in una fase ulteriore, attaccato le postazioni di Hezbollah in Libano e ha pure, con indubbio successo, intrapreso una campagna mirata di eliminazione individuale dei capi di Hamas e Hezbollah. Ma non ha per nulla intaccato il rapporto costruito negli anni con i paesi arabi sunniti, per parte loro alle prese con le proteste rabbiose dei propri cittadini a fronte delle sconvolgenti immagini provenienti – con fatica – da Gaza e però attenti alle ragioni della realpolitik.
E pertanto, mentre Gaza veniva distrutta nessuno in Egitto e Giordania ha posto in discussione l’ormai consolidato accordo con lo stato ebraico, né gli Emirati o il Marocco hanno rigettato gli “Accordi di Abramo” ai quali L’Arabia Saudita non si è ancora associata senza però rinunciare all’idea di farlo, nel primo momento favorevole per condurre in porto la cosa. Insomma, Israele non è stato isolato diplomaticamente. Anche se l’empatia nei suoi confronti, che avrebbe potuto aumentare dopo il 7 ottobre se la sua reazione fosse stata diversa, è pressoché scomparsa ovunque, anche presso paesi tradizionalmente amici.
Il 13 aprile, però, si è registrato un nuovo passo nella direzione poco fa accennata: per la prima volta l’Iran ha attaccato direttamente Israele. Certo, con una azione blanda e preavvertita, ma comunque simbolicamente importante. A cui la Stella di David ha risposto in maniera conforme. Al di là della misura quantitativa, il segno inequivocabile dell’apertura di una fase nuova, ancor più pericolosa. Lo scambio diretto di droni armati e di missili si è ripetuto una seconda volta, qualche mese più tardi e con qualche potenza maggiore. Ulteriore passaggio verso un rischioso momento di non ritorno. Che però, ecco il punto, è realmente immaginato da Israele, con tutto quello che ne consegue in termini di preparazione.
In attesa fra l’altro del cambio di amministrazione a Washington, auspicato e puntualmente avvenuto: dal 20 gennaio alla Casa Bianca torna un signore che valuta possibile un’operazione di “regime change” a Teheran. Dove invece gli ayatollah e i politici da loro dipendenti sono – al di là dei proclami buoni per le masse – molto preoccupati e molto indecisi sul da farsi. Consapevoli dei propri punti deboli. Crisi economica, latente protesta sociale pronta a esplodere se non controllata con ferrea applicazione costrittiva, oggettiva inferiorità militare rispetto all’IDF, consapevolezza di avere puntati contro i missili statunitensi presenti sulle portaerei e sui sommergibili dislocati nel Mediterraneo.
Questa incertezza ha determinato il precipitare degli eventi in senso negativo per Teheran. In natura e anche in politica non esistono spazi vuoti, e così qualcuno ha approfittato di questa incertezza. Nella fattispecie, oltre a Israele, il sultano turco. Recep Tayyip Erdogan ha colto l’attimo incoraggiando e aiutando i jihadisti siriani ad affondare Assad, il cui regime ormai si teneva in piedi solo se e in quanto sostenuto da russi e iraniani, che però improvvisamente avevano realizzato di non poterlo più garantire come fatto sin lì. E così ora potrà far rimpatriare buona parte dei 4 milioni di rifugiati siriani oggi ammassati nei campi profughi, e allargare oltre Idlib la zona-cuscinetto che lo separa dai curdi siriani, in attesa magari di poterli colpire duramente.
Il Levante è ora in una fase di trasformazione. Una transizione verso un futuro ancora indefinito che potrebbe anche essere assai lunga. Ma anche più breve del previsto, se il potere di ayatollah e pasdaran dovesse subire un tracollo a fronte della cruda volontà israeliana di liberarsi una volta per tutte di un nemico che ne contesta l’esistenza. Tutto è possibile, il domino regionale è in piena evoluzione.