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giovedì, 27 Novembre, 2025
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Il Maestro e il tennis di provincia

Favino racconta un’Italia senza glamour: campi in terra rossa, ambizioni acerbe e una generazione cresciuta tra promesse e stazioni ferroviarie.

L’Italia che non vince, ma non smette di provarci

A beneficio dei nostri lettori, bisogna dire che se l’Italia fosse l’America, un attore come Pierfrancesco Favino avrebbe già vinto almeno un Oscar.

La sua “ultima fatica” cinematografica è l’interpretazione di Raul Gatti, una vaga somiglianza con Raul Gardini, sorriso e fascino da spot Martini, ex promessa del tennis italiano. Con più colonne di cronaca rosa che articoli di quotidiani sportivi.

Il film ha senz’altro il merito di rappresentare l’Italia (o meglio, la riviera romagnola) all’inizio degli anni ’90: telefoni a gettoni e chioschi di piadine, ragazze in topless sulla spiaggia, sudore, polsini e pantaloncini corti.

Il rapporto maestro–allievo: il vero set decisivo

Gatti-Favino è il coach di un ragazzino di 13 anni (Felice), che porta sulle spalle il peso di un difficile rapporto con il padre, ingegnere gestionale della SIP, convinto – in modo maniacale – di avere un campioncino in casa e perciò ossessionato dal risultato ad ogni costo.

Il rapporto tra allievo e maestro diventa rapidamente il “motore” del film: il primo condannato a diventare un fenomeno prima ancora di aver compreso le regole (quelle vere) della vita; il secondo pieno di talento, sciupato e mal gestito, ma con un forte desiderio di rivincita.

La grandezza di Favino sta nel non nascondere le crepe psicologiche ed esistenziali che si aprono dentro il suo personaggio. Mostra, da par suo, un uomo che si sta lentamente consumando, ma che ha il merito – indubbio – di capire che il piccolo Felice ha (lui sì) un futuro.

Il film lavora come una goccia sulla pietra

È un film lento, caldo, quasi “estivo” nel ritmo, ma che sotto la superficie ti scava piano dentro (“Gutta cavat lapidem”, dice Gatti-Favino), come una partita di tennis che si prolunga in un infinito tie-break.

La regia di Andrea Di Stefano porta in dote un po’ di nostalgia (chi scrive ha frequentato questo sport, da ragazzino, proprio negli anni ’90) tra campi in terra rossa e notti infinite negli hotel a una stella.

Come dice Ligabue in una famosa canzone del 1995, “quelle notti tra cosce e zanzare, nebbia e locali a cui dai del tu…”.

Il mondo del tennis è senza dubbio affascinante anche da un punto di vista cinematografico, soprattutto per la rappresentazione di tutte quelle componenti mentali legate allo sforzo, alla fatica e al progresso in carriera.

Il tennis italiano prima dell’era Sinner

È realmente esistito, il personaggio di Raul Gatti? Non lo sveliamo qui, a beneficio di quanti andranno a vedere il film al cinema.

Di sicuro il successo – effimero ed estemporaneo – di un giocatore italiano sulla terra rossa, superficie su cui, fino al boom della generazione Sinner, primeggiavano i nostri tennisti (non avendo modo di essere competitivi altrove), è un elemento molto realistico del film.

Così come lo è la rappresentazione di professionisti di cui, nonostante le promesse iniziali, si perdono poi le tracce: soprattutto nei caotici anni ’90, in cui il tennis non rappresentava – come oggi – la principale fonte di successo economico di un tennista e, nella maggior parte dei casi, dunque, non poteva essere inteso come un vero e proprio impegno professionistico.