Il monito di Padre Sorge

Il merito di P. Bartolomeo Sorge è di non essere attaccato alle sue antecedenti predicazioni.

Il merito di P. Bartolomeo Sorge è di non essere attaccato alle sue antecedenti predicazioni. C’è stato un tempo infatti che ha visto l’ex direttore di “Civiltà Cattolica”, allora il gesuita più influente nella vita pubblica italiana, mettersi al servizio del rinnovamento della Dc, avanzando e approfondendo, passo dopo passo, la tesi della “ricomposizione dell’area cattolica”. Correvano gli anni ‘70 e ‘80 del secolo scorso, praticamente un’era geologica fa.

Oggi di quel discorso rimane l’anima, non l’armatura esterna. Rimane il principio del rinnovamento. Certo, la caduta del Muro di Berlino e la dissoluzione – almeno in Italia – del quadro politico-ideologico della guerra fredda hanno tranciato di netto il legame con il passato. Tutto è cambiato traversando la bufera di Tangentopoli.

Chi ha salutato la fine della Dc come una liberazione esalta gli aspetti positivi derivanti da quella che viene perlopiù definita una rottura provvidenziale. I cattolici hanno messo a frutto l’insegnamento conciliare sull’autonomia dei laici in politica e la valorizzazione, conseguentemente, del pluralismo delle opzioni. Certamente se ne è avvantaggiata la Chiesa, forse un po’ meno l’Italia.

Ormai P. Sorge non tifa per una “ricomposizione cattolica” essendo convinto che indietro non si torna. Oggi, intervistato da “Repubblica”, è stato molto chiaro: “Ciò che i cattolici debbono fare – ha precisato – è, come dice Francesco, aiutare la “buona politica”. È urgente impegnarsi nella formazione non di un partito, ma di “uomini di buona volontà”, capaci di ricostruire la coscienza del bene comune, oggi dissolta”.

Questo significa che un certo integralismo di ritorno, tendente a enfatizzare anacronisticamente l’idea di un nuovo partito d’ispirazione cristiana, non trova sponda nel mondo della Compagnia di Gesù e quindi neppure nella Chiesa del gesuita Francesco. La quale Compagnia, tuttavia, all’indomani della seconda guerra mondiale, sebbene da posizioni più conservatrici rispetto a quelle odierne, molto avanzate sul piano sociale e culturale, nutriva la medesima ritrosia o meglio la medesima avversione nei confronti della scelta unitaria dei cattolici.

I gesuiti non sono mai stati democristiani, intanto per un’antica divergenza dal personalismo comunitario di Maritain, poi ridotta grazie a una lettura eminentemente legata alla riscoperta dell’umanesimo teocentrico del filosofo francese; quindi per una più attuale e stringente visione, dominata da un imperativo di assoluta fedeltà al Concilio Vaticano II, in virtù della quale l’evangelizzazione che nuovamente appare necessaria, in Occidente e in particolare in Italia, richiede l’impegno a priori della Chiesa a disconoscere ogni tentazione di temporalismo.

Il paradosso è però che l’ideale democratico cristiano, sorto con Romolo Murri all’alba del Novecento in funzione di un grande e generoso rinnovamento, quand’anche esposto ab initio alle contaminazioni dalle sue stesse ingenuità; ideale, comunque, che si poneva l’obiettivo di rompere il dissidio tra cristianesimo e modernità, con ciò anticipando di alcuni decenni le scelte dei Padri conciliari sul rapporto Chiesa-mondo: ecco, proprio come ideale, esso finisca ora per estinguersi al pari delle sue caduche manifestazioni storiche, fino al punto di presentarsi addirittura come controparadigma del nuovo impegno dei cattolici italiani.

Qui non tutto collima alla perfezione. Infatti, sebbene convinca il monito del Padre gesuita circa l’implausibilità del ritorno al “partito cristiano”, meno sembra convincere il resto, ovvero l’annullamento di ogni ancoraggio alla tradizione del cattolicesimo democratico. “De Gasperi, Moro sono figure ideali non più riproducibili”, dice ancora P. Sorge. Dobbiamo in sostanza archiviarne la lezione.

E allora, a chi dobbiamo guardare? Cosa dobbiamo pensare o ripensare, una volta cancellato un canone di appartenenza? Come vincere il populismo e il sovranismo, giunti a questa potenza anche per il terremoto che ha devastato l’edificio della memoria civile e della coscienza democratica del Paese, se anche i cattolici abbandonano il criterio direttivo di una giusta continuità di pensiero e di azione?

La convinzione che possa derivare un largo profitto dal prendere sul serio questa sorta di “zero alla partenza”, iniziando dall’iconografia – le figure, appunto, non più riproducibili – che decora la più qualificata storia democristiana, può rovesciarsi nella disillusione e nello spaesamento. Questo accade quando, esaurita una fase di entusiasmo, si torna inevitabilmente a fare i conti con un’esigenza di realismo e concretezza, nondimeno di coerenza. In conclusione, il rischio di un rinnovamento senza basi di pensiero, o meglio di pensiero politico, è quanto di più prossimo alla faticosa e incerta riconfigurazione dell’impegno pubblico dei cattolici.

La buona politica auspicata da P. Sorge non può esulare da questa necessaria opera di riconoscimento e discernimento della migliore esperienza, non ancora spenta, del cattolicesimo democratico.