Il monocolore targato M5S, che stamane ripropone Giuliano Ferrara sul Foglio, è un’idea ardita ma non assurda. Se si vogliono evitare le elezioni, frenando la pretesa dei “pieni poteri” di Salvini, non ci sono tante strade. L’alternativa è un governo politico di complicata gestazione, frutto di un’intesa strategica tra M5S e Pd, con tutte le obiezioni che ne frenano la definizione pratica.
La svolta avverrà oggi pomeriggio in Senato con il discorso di Giuseppe Conte. Solo dopo l’intervento prenderà forma la procedura che segnerà il percorso della crisi. È improbabile che il Presidente del Consiglio traduca la volontà di archiviare l’esperimento gialloverde in un semplice e drastico rovesciamento di fronte, con l’appello ai Democratici a fare “squadra” in modo organico per il prosieguo della legislatura, sotto il mantello ideale di un matrimonio di convenienza a forte impatto sulla pubblica opinione.
In effetti, la pubblica opinione è divisa tra il rifiuto delle smanie (pericolose) di Salvini e l’assenso, perlomeno complicato, a un mutamento di fronte tutto interno al Palazzo. Per questo la “tregua” è l’unica forma di soluzione alla crisi politica aperta con tanto clamore e tanta arroganza. Si tratta di conferire il giusto rilievo a un passaggio che risponde a una logica di necessaria e problematica transizione, appoggiandosi allo schema adottato in Europa con la elezione di Ursula con Deri Leyen (e David Sassoli). Il punto è capire se il monocolore pentastellato, a prescindere dalla sua intrinseca provvisorietà, può essere innervato da un gruppo più esteso di tecnici, su cui dovrebbe pesare la discreta ma incisiva “benedizione” di Mattarella.
È la scelta della “tregua” a consentire, più di altre ipotetiche operazioni, il formarsi di una larga convergenza parlamentare, senza pregiudiziali in ordine alle possibili inclusioni e quindi aperto, in via di principio, anche al l’apporto di Forza Italia. Ciò darebbe modo di esaltare il riconoscimento di una nuova centralità del Parlamento, alla quale necessariamente il governo sarebbe sottomesso. Poi si vedrà. Isolato Salvini, spetterà alle forze politiche immaginare lo sviluppo dell’intesa al di là dell’emergenza (perché di vera emergenza, non solo finanziaria, si deve oggi parlare in Italia).
Questo scenario – si dice – non convince Zingaretti. La preoccupazione del segretario Pd poggia su un argomento rispettabile, ovvero sulla consapevolezza dei rischi che comporta una transizione priva di respiro strategico. Bisogna tuttavia che emerga nel Pd un’altra consapevolezza, non meno stringente, a riguardo proprio dell’audacia di un cambio di maggioranza, la cui connotazione rimarrebbe agli occhi dei più un affrettato e spregiudicato accordo di potere con gli odiati (fino a ieri) avversari grillini. Invece un approccio più garbato – se l’aggettivo non disturba – è ciò che conviene allo stesso Zingaretti. Incassare la liquidazione dell’offensiva leghista sarebbe già un risultato di straordinaria importanza. Se esistesse un partito di centro, alla maniera di quel centro che proprio in queste ore il ricordo di De Gasperi riporta alla mente, non avrebbe difficoltà a cogliere il valore di una simile linea di prudenza, ma di una prudenza certamente unita a intelligenza e lungimiranza. Prima vengono gli interessi del Paese, poi quelli del proprio partito.