Quando Michela Murgia parla (o scrive) chissà perché lo fa sempre dall’alto della sua cattedra dove pontifica, impartendo lezioni a tutti, nella sua muliebre sapienza.
Il vangelo del giorno di Natale ci ricorda: “E il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi; e noi vedemmo la sua gloria, gloria come di unigenito dal Padre, pieno di grazia e di verità” (Gv 1,14). L’incarnazione è il mistero più grande ed incomprensibile, ed allo stesso tempo la dimostrazione tangibile di come Dio abbia amato l’umanità da donargli il suo unico Figlio perché questi si sacrificasse per noi. L’immagine di questo Dio che si fa uomo, e che si presenta come un bambino che nasce nella precarietà del provvisorio, però non ha nulla di infantile e non spinge i cattolici ad “infantilizzarsi”, così da “essere sprovvisti di capacità critica” (perché nel fondo è a questo che fa riferimento la Murgia nel suo articolo di ieri su La Stampa).
Se pensiamo bene, i bambini sono quanto di più bello ed allo stesso tempo di fragile si possa trovare, e proprio perché indifesi possono essere preda di tutti. E ben sappiamo cosa fa l’umanità dei bambini inermi. Per chi non crede è difficile capire che Dio sceglie ciò che è povero e debole per mostrare la sua grandezza, per parlare a questa umanità che non sa più leggere i segni e piega la religione e la fede ai propri interessi. E non c’è niente di “zuccheroso” nel mistero della nascita di Gesù, perché quella nascita è già segno di ciò che dovrà essere: passione e morte, e poi resurrezione per farci partecipi della sua gloria. Ora, solo chi non crede che Dio ama l’uomo immensamente può pensare che “diventare come Dio non è alla nostra portata”, dimenticando che con il battesimo la stessa Trinità viene ad abitare in noi. E per fortuna, o meglio per grazia di Dio, i riscontri biblici ci sono, basta saperli cercare, anche chiedendo a Google, che mi pare sappia più di tutti.
Tutta la storia narrata nelle Sacre Scritture ha in Cristo inizio e compimento. L’Antico Testamento è annuncio del mistero che si compirà grazie al sì di una umile giovane di un povero paese della Galilea, Nazareth; in esso sono presenti centinaia di profezie su Gesù, molte delle quali riguardano il tempo della sua passione. In Genesi 3,15, nella prima promessa di un Salvatore fatta ad Adamo ed Eva dopo il peccato, il Messia futuro viene semplicemente definito come “progenie della donna”, che schiaccerà il capo al serpente e lo vincerà. Il profeta Michea quando parla del luogo di nascita del Messia dice: “Ma da te, o Bethlehem Efrata uscirà colui che sarà dominatore in Israele, le cui origini risalgono ai tempi antichi, ai giorni eterni…” (cf. 5,1-2); e ancora nel libro del profeta Isaia leggiamo: “Perciò il Signore stesso vi darà un segno: ecco, la giovane concepirà, partorirà un figlio, e lo chiamerà Emmanuele” (Is 7,14), per poi citare il profeta Osea che dice: “Fin dall’Egitto chiamai il mio figlio” (Os 11,1), e Geremia che annuncia la strage degli innocenti: “Una voce si ode da Rama, lamento e pianto amaro: Rachele piange i suoi figli, rifiuta d’essere consolata perché non sono più” (Ger 31,15). E se ne potrebbero citare a iosa. Quanto ai Vangeli, sono stati redatti per portare la Buona novella a diversi tipi di credenti: Matteo ha scritto per i giudei convertiti al cristianesimo; Luca scrive soprattutto per i gentili; Marco per i cristiani romani provenienti dal paganesimo; Giovanni scrive per tutta la Chiesa. In essi non c’è mito, ma verità storica e di fede, perché la Sacra Scrittura non sbaglia (inerranza biblica).
Nella storia di Gesù e della Sacra famiglia non c’è nulla di banale, di cinematografico, o di “cinepanettone”, ma proprio la storia di una famiglia reale, che, come tante, ha affrontato la vita e le sue vicissitudini, ed ha cresciuto il Figlio di Dio come un bambino qualunque, in quanto Maria e Giuseppe non potevano gestire il grande mistero, di cui anche loro facevano parte, senza viverlo con la maggiore normalità possibile, perché a cercare di capire i piani di Dio si può diventare matti. E intanto Maria partorisce in una stalla, forse, o in una grotta adibita a stalla, o in una stanza poverissima e Gesù è “deposto” in una mangiatoia perché non c’era altro posto dove tenerlo al caldo. Da notare che il verbo usato per indicare la deposizione di Gesù nel presepe è lo stesso usato per dire la deposizione di Gesù dalla croce…
Di chi è stata la colpa? Certamente di quelli che pensano che in tutta questa storia la colpa sia di qualcuno: di Erode, dei Magi, dei cattivi di turno, e così via? Chi è senza peccato scagli la prima pietra! Scomodare, poi, Benedetto XVI sul tema della liturgia postconciliare sembra alquanto eccessivo e fuori luogo, così come citare il canto “mistificatorio” (Dio si è fatto come noi) nel quale si fa semplicemente riferimento alla Scritture, ed in particolare a passo seguente: “Attraverso queste ci sono state elargite le sue preziose e grandissime promesse perché per mezzo di esse voi diventaste partecipi della natura divina, dopo essere sfuggiti alla corruzione che è nel mondo” (2 Pt 1,4).
Ma si, in fin dei conti siamo tutti esseri umani, tutti pericolosamente esposti alla corruzione di questo mondo, alle contraddizioni, alle false verità, alle idee e ideologie che rendono l’accoglienza dell’altro, del povero, del profugo, del fuggiasco, uno strumento di propaganda politica ed ideologica, soprattutto quando i poveri, dopo averli salvati, li lasciamo nei lager che costruiamo, noi, quelli che ci sentiamo dio perché li abbiamo salvati, perché “non c’è posto per loro” nel nostro mondo perfetto. E allora lasciatemi dire: beati quelli che si commuovono davanti al mistero dell’Incarnazione perché in essa trovano il volto di un Dio che si è fatto uomo e nel quale si riconoscono, “Piacque a Dio nella sua bontà e sapienza – si legge nella costituzione dogmatica Dei Verbum – rivelarsi in persona e manifestare il mistero della sua volontà, mediante il quale gli uomini per mezzo di Cristo, Verbo fatto carne, hanno accesso al Padre nello Spirito Santo e sono resi partecipi della divina natura” (DV 2).