IL PD NON HA ALTRE SCELTE SE NON TORNARE ALLA VOCAZIONE MAGGIORITARIA.

Il giudizio sulla conduzione delle trattative non è positivo per la gestione di Enrico Letta. Malauguratamente il Pd ha visto saltare l’accordo con Calenda, tant’è che il rischio per il Nazareno, a questo punto, è di chiudersi in un’alleanza incapace di attirare il voto dell’elettorato di mezzo (tra destra e sinistra). Dunque, un’alleanza senza respiro strategico. E allora, come contenere l’ondata della destra? A ben vedere, non  resta che la riproposizione del modello di partito a vocazione maggioritaria.

Letta è nei guai. Fin qui non ha dato prova di guidare con serietà la fase preparatoria delle liste. Il passaggio dall’alleanza strategica con Calenda al patto elettorale con Fratoianni ha dato evidenza a una strana combinazione di leggerezza e di superbia. Non era difficile prevedere che un’operazione a dir poco maldestra – unire il “centro” e la “sinistra” con un trucco da prestigiatore – avrebbe fatto saltare l’accordo tripartito (Pd-Azione-Più Europa). Con ciò viene meno la presa sull’elettorato che non vuole affidarsi alle convulsioni di una destra radicale, ma nemmeno consegnarsi agli ibis redibis di una sinistra pasticciona. Scaricare la tensione parlando di slealtà e tradimenti assomiglia a un depistaggio per cercare di nascondere il fallimento di una linea. Adesso predomina l’accusa che mette capo a una questione di affidabilità, come se Di Maio, per il semplice fatto di trovare accoglienza nei “democratici e progressisti”, improvvisamente si trasformi in un campione di coerenza.  

La contraddizione più grave si nasconde dietro un comportamento che rivela come alberghi ai piani alti del Nazareno una certa confusione. Si vuol far credere che la dissociazione di Calenda non abbia conseguenza significative, ma intanto si manifesta tra le righe la tendenza ad allargare le maglie dell’alleanza con qualche strizzatina d’occhio ai Cinque Stelle. D’altronde, dopo aver aperto i cancelli ai rosso-verdi perché chiuderli ai grillini? La fedeltà a Draghi e alla sua Agenda è stata largamente compromessa. Dunque, nel Pd serpeggia il desiderio di riaprire il discorso con gli alleati strategici di un tempo, anche se da essi non vengono segnali di effettiva disponibilità. Conte resta asserragliato nel suo fortino: non ha interesse a mercanteggiare qualche posto nei collegi, gli basta organizzare a casa sua il pacchetto dei futuri eletti nel proporzionale. 

In questo quadro s’accende l’ultima spia di un possibile contrordine, per tentare di arginare, si spera, l’avanzata della destra. Ed ecco che il suggerimento al Pd è di prendere coscienza di se stesso, issando in alto la bandiera dell’identità del riformismo democratico. Allo scontro occorre andare con la presa d’atto che il corteo degli alleati serve a poco. Fuori i secondi: sul ring rimangano solo Letta e la Meloni. L’alternativa passa necessariamente per questa nuova personalizzazione della battaglia elettorale. Tuttavia, anche questo schema appare fragile, ancora una volta per responsabilità del segretario Dem. Come trattare la Meloni? Dopo mesi e mesi di curiosi siparietti, tanto da far parlare di coppia in versione “Sandra e Raimondo”, ora Letta dovrebbe giocare la carta di una dura pregiudiziale in nome della “difesa della costituzione”, respingendo fuori dal campo democratico la candidata premier della destra. Può darsi che Letta si acconci a questo “cambio ruote” che i meccanici del centro sinistra gli propongono. Male che vada, alla luce della svolta neo-identitaria, potrà affondare il bisturi sulla formazione della lista del Pd, allargando lo spazio per le candidature più adatte a conformarsi a questa nuova e improvvisa edizione del partito a vocazione maggioritaria.