L’architettura coloniale italiana, soprattutto quella tra le due guerre, esprime una linea di sperimentazione razionalista particolarmente significativa. La ricerca, portata avanti in Libia, ma anche in Somalia, in Eritrea e in Etiopia, è spesso affidata ad architetti molto giovani. Le realizzazioni principali sono quelle degli anni Venti e Trenta, ma già nel 1912, dopo lo sbarco degli italiani in Libia, non pochi progetti, soprattutto, di opere pubbliche, vengono pensati per la capitale Tripoli. Nel rincorrere quanto gli altri Stati europei avevano avviato nell’Ottocento, l’Italia si muove alla conquista del «bel suol d’amore» nel mito della sua fertilità.
Alla Casa dell’Architettura, la sede dell’Ordine degli architetti di Roma, è stata inaugurato il 9 luglio, e rimarrà aperto fino al 10 settembre, Il Razionalismo Libico, a cura di Walter Baricchi, che ripercorre una mostra presentata a Tripoli, a seguito del protocollo di cooperazione tra il Libyan Board of Architecture e diversi Ordini degli architetti italiani (Roma, Napoli, Venezia, Treviso e Reggio Emilia).
Comunemente, l’attenzione verso l’architettura di questo periodo è rivolta agli edifici pubblici, spesso vicini, per stile e per composizione, ai modelli e ai temi delle città italiane di nuova fondazione. Dalle cartoline in bianco e nero dell’epoca è possibile rintracciare infatti una tensione metafisica che accomuna queste due realtà. I caratteri coloniali non si limitano però a questo; offrono alcuni motivi di originalità aggiunta; raccolgono spunti locali, non secondari, legati all’uso dei materiali, dei decori e dei colori. L’impegno infatti non è rivolto esclusivamente al costruire edilizio, ma riguarda i progetti urbanistici e le campagne di restauro archeologico. Le preesistenze riportate alla luce assumono peraltro un importante significato simbolico: sostengono la spinta all’espansione imperiale dell’età giolittiana e, ancor più, lo spirito di conquista del fascismo. Cosa può essere più celebrativo e solido del radicamento sui fasti ritrovati dell’antica Roma?
Alle opere degli anni Trenta — i piani urbanistici, la costruzione degli edifici pubblici, dei porti, degli acquedotti, oltre agli scavi archeologici — si aggiungono gli interventi rivolti all’agricoltura, destinati agli italiani pronti a partire per l’Africa. La cosiddetta “terra promessa” diventa una prospettiva per chi, senza lavoro, vuole avviare un’impresa su un territorio libero. A partire dalla metà degli anni Trenta l’atteggiamento dei colonizzatori diventa un po’ più “amichevole”: vengono promosse iniziative, anche di tipo economico e sociale, con la costruzione di strutture assistenziali e per la formazione scolastica. La stabilità politica è tuttavia intermittente e quell’intenzione di amicizia e di rispetto viene presto contraddetta dallo spirito delle leggi razziali, che restituisce un clima di antagonismo e di forte separazione con le popolazioni locali.
I pannelli esposti all’Acquario romano dimostrano che le opere realizzate in questi anni non sono poche e spesso di notevole interesse, anche per la loro ampia differenziazione funzionale. Vengono costruiti asili, scuole, edifici di culto e villaggi colonici per assicurare una buona permanenza agli italiani, ma anche per migliorare lo stile di vita in generale.
Le opere di maggior rilievo sono a Tripoli e si caratterizzano, quasi tutte, per lo stile razionalista, ma anche per una chiara impronta neoclassica, volta a imprimere prestigio istituzionale. Il Palazzo del Governo (ora sede del ministero degli Interni) è contraddistinto da un tono austero molto pronunciato, non certo privo di accenni retorici. Gli edifici residenziali mostrano un aspetto meno grave, esprimendo con convinzione la memoria del costruire mediterraneo. In essi prevale il colore bianco, le facciate sono marcate da balconi e gli interni ospitano ampi cortili. Il Mercato centrale riprende la soluzione costruttiva del ferro e del vetro, mentre l’ospedale, che rispetta rigorosamente le prescrizioni funzionali, non concede quasi nulla al formalismo. Sono opere ben riconoscibili, anche nei casi in cui la dimensione si proietta alla scala territoriale, come la strada che accompagna il profilo della costa dalla Tunisia all’Egitto.
Molti sono gli architetti che vanno a lavorare nelle colonie e, quasi tutti, come visto, abbastanza giovani: Alessandro Limongelli, nato al Cairo, ma naturalizzato italiano; Cesare Bazzani, accademico d’Italia, autore a Roma del ministero della Pubblica Istruzione; Florestano Di Fausto, architetto e ingegnere; Armando Brasini, impegnato negli scavi archeologici di Leptis Magna e Sabratha.
Un’impronta rilevante è presente anche a Bengasi. Qui la testimonianza dell’architettura italiana è espressa dagli edifici pubblici, dai complessi residenziali, distribuiti in varie parti della città, e dalle infrastrutture di collegamento. Ancora più che a Tripoli, è evidente la combinazione tra due tradizioni e due culture: quella razionalista degli anni Venti e Trenta, proveniente dall’Italia, e quella locale, caratterizzata soprattutto dalla ricchezza dei motivi ornamentali.
La mostra curata da Baricchi si concentra sull’architettura coloniale italiana in Libia. Un richiamo, del tutto naturale, va però rivolto a quanto accade in Somalia, in Eritrea e in Etiopia. L’attuale situazione politica presenta condizioni fortemente instabili; il loro patrimonio architettonico mantiene però una buona conservazione, permettendo la riconoscibilità dei contributi delle diverse matrici.
Per ognuno di questi Paesi si potrebbe sviluppare una specifica ricerca; in termini più generali e sintetici si può però fare riferimento all’architettura coloniale del Corno d’Africa. Mogadiscio e Asmara sono le due città che conservano gli interventi di maggior valore. Oltre agli edifici governativi e alle infrastrutture, Mogadiscio offre la cattedrale dedicata alla Vergine Consolata, che propone una facciata compresa tra due alti e massicci campanili. Un’opera ancora più rappresentativa è l’ex Hotel Croce del Sud, realizzato nel 1938, che associava alla funzione principale alberghiera quella commerciale. In un’atmosfera di pronunciato esotismo si aprivano al suo interno vasti ambienti per riunioni e ricevimenti. Ad Asmara, patrimonio dell’umanità Unesco dal 2017, viene naturale il confronto tra la sua cattedrale e quella di Mogadiscio. Anche qui il riferimento stilistico è il romanico, richiamato dalla finitura in mattoni che riempie le pareti, incorniciando il disegno delle aperture. La composizione è però completamente diversa: qui la facciata definisce la volumetria d’insieme e un unico campanile, posto sul retro, conclude l’asse della navata.
Ancora più approfondite potrebbero essere le considerazioni sull’architettura italiana in Tunisia. Qui le tracce, lasciate anche dalle maestranze, soprattutto siciliane, risalgono all’Ottocento, con un radicamento profondo anche nelle attività produttive. I temi architettonici, molto vari, danno vita, in particolare, a una linea déco del tutto originale che combina e sintetizza due culture costruttive: quella tunisina e quella italiana.
L’occasione di questa mostra suscita valutazioni molto diverse per natura e contenuti. L’interesse per l’architettura è sicuramente quello primario, ma ugualmente rilevante è quello che mette a fuoco il valore culturale e politico del Mediterraneo. Ogni opportunità che evidenzi le tradizioni e gli scambi tra i Paesi che lo delimitano, anche quando questi ultimi sono stati di conquista e di colonizzazione, può, a mio avviso, agire positivamente sulla promozione e sul recupero di un’area, ancora oggi, sempre più attraversata da conflitti.