Arriverà il momento nel quale i fallimenti (si pensi ad esempio al congelamento dei rapporti commerciali/energetici con la Germania, che con la costruzione del gasdotto Nord Stream 2 avrebbero dovuto essere rafforzati) presenteranno il conto all’autocrate del Cremlino.
Enrico Farinone
È davvero possibile la caduta di Putin, come ipotizza Foreign Affairs in un articolo titolato Putin, ultimo atto. La promessa e il pericolo di una sconfitta russa? Ed è davvero ipotizzabile, nel caso, un aggravamento ulteriore della situazione mondiale dovuta al rischio, concreto, che lo zar venga sostituito dall’ala più radicale del potere, magari guidata dal terribile Eugenij Prigozhin (il capo della famigerata banda di mercenari assassini denominata Wagner) o dal leader ceceno Ramzon Kadyrov? Ed è realmente probabile che a quel punto i russi valutino il ricorso all’arma atomica quale unica alternativa alla sconfitta militare sul campo oltre a quella politica nel consesso della comunità internazionale?
Michael Kimmage e Liana Fix, i due informati autori del saggio pubblicato sulla più importante rivista americana e mondiale di politica internazionale, scrivono quello che molti temono senza avere il coraggio di ammettere. Uno scenario terrificante che solo fino ad un anno fa era ritenuto più che fantascientifico. Ma che oggi, a fronte del fallimento della cosiddetta “operazione militare speciale” voluta da Putin, non può essere completamente escluso dagli analisti, in primo luogo da quelli che lavorano a Washington. Probabilmente è anche di questo che Joe Biden avrà discusso con Volodymyr Zelensky nel loro recente incontro alla Casa Bianca, incrociando le perplessità se non la totale contrarietà del presidente ucraino a qualsiasi ipotesi di mediazione, ma al tempo stesso facendo valere il peso determinante dell’aiuto militare che Washington sta garantendo a Kyiv. Cionondimeno, il varco utile ad avviare, anche solo ad avviare, una trattativa non è stato ancora individuato. Lo stesso pertugio che con la propria rinnovata disponibilità a fungere da mediatore sta cercando di trovare il ras turco Erdogan in virtù della sua possibilità di interlocuzione con il capo del Cremlino.
Il quale ultimo, se anche la situazione interna non fosse così problematica come quella descritta su Foreign Affairs, e forse (ancora) non lo è, deve cominciare a fare i conti con alcuni risultati effettivamente fallimentari, che certo potrebbero condurlo ad una condizione di progressivo isolamento nelle stanze del potere a Mosca, quasi plasticamente testimoniato dalle terree immagini della sua partecipazione solitaria ai riti del Natale ortodosso. Il nuovo avvicendamento al comando dell’operazione militare speciale, con la promozione alla sua guida del capo di stato maggiore Gerasimov e il declassamento a suo vice del generale Surovikin, responsabile della medesima sino all’altro ieri, conferma peraltro le tensioni interne alla catena di comando e non solo.
Il primo fallimento di Putin è, naturalmente ed evidentemente, quello militare. Forse tradito dalle false rassicurazioni circa la potenza di fuoco e la professionalità conclamata delle forze armate russe, Vladimir Vladimirovich ha dovuto constatare nell’ordine la vetustà di larga parte dell’armamento in dotazione, la scarsa qualificazione strategica e pure tattica dei vertici militari, la facile attitudine alla demoralizzazione di truppe poco motivate e troppo spesso mal guidate. Le operazioni militari di terra non sono andate come credeva e anzi si sono rivelate largamente insufficienti, al punto che l’avanzata sul campo da parte ucraina sta ponendo in dubbio anche le conquiste territoriali ottenute la scorsa primavera nel settore orientale e meridionale dello Stato invaso.
Il secondo fallimento è un risvolto del primo: il rinvigorimento della Nato. L’alleanza era solo un paio d’anni fa ritenuta “obsoleta” dal presidente francese, meno strategica che in passato dagli stessi presidenti americani al di là del loro posizionamento politico (da Obama a Trump, a Biden medesimo), non più così importante da altri governi europei occidentali. Oggi la situazione si è capovolta. Tutti i paesi aderenti hanno accettato la reiterata – e per anni inevasa – richiesta statunitense di dedicare il 2% del PIL nazionale alle spese militari; Svezia e Finlandia hanno autonomamente richiesto d’essere ammesse all’Alleanza: è stata così e sarà in futuro ulteriormente rafforzata la presenza attiva militare e la dotazione in armamenti conseguente lungo tutto il fronte orientale, quello che Mosca avrebbe voluto allontanare da sé. In poche parole, la Nato è più forte di prima e più vicina territorialmente alla Russia di prima.
Il terzo fallimento forse non è ancora chiaro al presidente russo ma è abbastanza evidente se si interpretano i segnali e, soprattutto, i silenzi cinesi. Quella che solo un anno fa, nell’incontro fra Xi Jinping e Putin in occasione dell’apertura dei Giochi Olimpici invernali di Pechino, era stata definita una “alleanza senza limiti” fra i due Paesi è divenuta un’alleanza alquanto labile e limitata. Pechino non ha certo condannato Mosca per l’invasione dell’Ucraina, ma non l’ha neppure supportata in alcun modo dal punto di vista concreto. In realtà, i cinesi giudicano assai severamente l’azione russa perché essa ha determinato un forte rallentamento dell’economia mondiale, aggravando la crisi della globalizzazione commerciale che già il Covid aveva acuito negli ultimi due anni. Ciò ha provocato un danno imponente per la Cina stessa, che proprio sullo sviluppo del proprio business nel mondo – e in particolare nel ricco mercato europeo – ha posto le fondamenta delle proprie notevoli ambizioni planetarie datate 2049, esattamente un secolo dopo la nascita della Repubblica Popolare.
Pechino ha inoltre osservato, forse con stupore, quanto poco efficienti siano le armate russe, e questo avrà un peso sugli equilibri territoriali in Asia. Il contemporaneo rafforzamento della Nato, inoltre, ha convinto la leadership cinese che non sarà certo la Russia a indebolire gli USA, il vero e unico competitor, ora ancor più forte in Europa dove invece, attraverso gli scambi commerciali favoriti dalla infrastrutturazione garantita dalla Belt & Road Initiative, Pechino contava di rafforzare significativamente la sua presenza non solo logistica. I dubbi di Xi si sono tradotti, al momento, in sorrisi enigmatici e silenzi eloquenti che hanno già in un qualche modo limitato la portata politica dell’Organizzazione per la Cooperazione di Shangai, riunitasi pochi mesi fa a Samarcanda, che invece per Mosca dovrebbe essere l’incubatrice di una nuova e larga alleanza antioccidentale.
Arriverà il momento nel quale questi fallimenti (e altri ancora, si pensi ad esempio al congelamento dei rapporti commerciali/energetici con la Germania, che viceversa con la costruzione del gasdotto Nord Stream 2 avrebbero dovuto essere rafforzati) presenteranno il conto all’autocrate del Cremlino. E sarà quello il momento della verità, quello di cui scrive Foreign Affairs. Un momento che induce una certa, comprensibile e fondata, preoccupazione.