Questo contributo è stato presentato martedì 14 dicembre a un dibattito organizzato a Brescia dal Circolo Cultura Libera sul tema ‘Il sociale e il sacro. Riflessioni sull’ Enciclica ‘Fratelli tutti’, con la partecipazione del teologo  Mons. Giacomo Canobbio, della pastora valdese Anne Zell e di Giuditta Serra (Gruppo Donne di Sant’Eufemia). Pubblichiamo la terza delle quattro parti in cui abbiamo diviso l’intervento del prof. Minella.

Ce lo dicono alcuni dei più grandi filosofi del Novecento: penso per esempio a Heidegger (“Solo un dio ci può salvare”, titolo dell’intervista postuma) o a Jaspers, il geniale allievo di Weber per cui l’idea di Dio come ‘onniabbracciante’ costituisce il centro del suo pensiero. Oppure al filosofo francese di origine ebraica Emanuel Lévinas o al filosofo francese Paul Ricoeur o al filosofo italiano Pietro Prini. O a filosofe come Edith Stein, Simone Weil, Maria Zambrano, o a scrittrici come Catherine Mansfield, Virginia Woolf, Ludmila Ulickaja (non credo sia casuale la presenza di tante donne nell’avvertire questa presenza-assenza di Dio). Il sacro attiva sentimenti che vengono espunti nella oggettività della scienza, giustamente, e nell’atomizzazione della società, erroneamente: il senso della partecipazione all’altro, il senso dell’empatia come via regia per la conoscenza antropologica e psicologica (come aveva già stabilito la scuola antropologica statunitense fondata da Boas): in breve, l’amore come potenza conoscitiva. 

Si potrebbe obiettare a questa riflessione che viene compiuto un passaggio troppo brusco e immotivato tra il sacro e il divino, che enormemente varie sono le forme del sacro, così come le forme del divino: per cui il rigore intellettuale impedirebbe di omogeneizzare sentimenti così differenziati nella storia e nelle loro espressioni. Rispondo che il sacro e il divino comunque costituiscono un rimando alla trascendenza, all’ulteriorità, e che da questo rimando all’alterità l’esperienza umana risulta, o può risultare, arricchita di un alone di rispetto e di reverenza verso gli altri esseri del mondo. È pur vero che il sacro e il divino possono anche essere piegati a mostruose deformazioni disumane: si vedano i sacrifici religiosi o le guerre di religione. 

Proprio per questo non possono essere recuperati in toto, ma nel sentimento originario che, al di là del velo di ignoranza e anche di barbarie, in essi si esprime: un po’ come faceva, con la grande sapienza dell’arte, Lev Tolstoj a proposito dei barbari suoi contemporanei, i contadini russi alla cui profonda umanità, nascosta sotto uno strato di superstizione, si ispirava e a cui ha dedicato splendidi ritratti (per esempio, Platon Karataev in Guerra e Pace).  Questa esperienza fondamentale – ‘un filo di luce che lega al cielo’ (Hegel) – trascende l’immediatezza e i particolarismi e consente di contrastare le istanze distruttive di cui questi sono portatori. Ma proprio essa viene per principio espulsa dall’immanenza tecnico-economica che prevale nella civiltà contemporanea, con le conseguenze che abbiamo ricordato prima e che oggi appaiono evidenti nel loro esito tragico. 

Non si devono comprendere le forme, antiche e moderne, del sacro o del divino nella loro esteriorità formale, oggi non proponibile: si tratta di compiere un’opera di recupero che sia, per quanto è possibile, rispettosa del senso nascosto della tradizione, di capire qual è l’investimento emotivo che in queste culture arcaiche si esprime e che manifesta un profondo senso di coappartenenza vitale al mondo naturale e a quello sociale: l’esatto opposto del sentimento dominante nelle società ipermoderne, in cui il valore, e potremmo anche dire la ‘religione’ dominante, è costituito dal culto del profitto (denaro) e dalla crescita infinita, di tipo puramente quantitativo, così ben espressa  dal parametro del PIL. In breve: potremmo dire che questa cultura ipermoderna, che si pone come ‘obiettiva’, avalutativa, neutrale, costituisce una grande religione di massa, che ha i suoi adepti, le sue articolazioni, le sue gerarchie, e che si oppone alle grandi religioni tradizionali. Le quali a loro volta spesso reagiscono, in alcune civiltà-mondo (penso per esempio alla civiltà islamica) negando completamente i valori scientifici e civili della modernità, limitandosi a importarne le tecnologie, anzitutto quelle militari.

 

Chi è Walter Minella

Walter Minella ha insegnato storia e filosofia nei Licei. Tra le sue pubblicazioni Il dibattito sul dispotismo orientale. Cina, Russia e società arcaiche (Armando, Roma 1994). Ha tradotto dal russo il breve saggio di Varlam Šalamov, Tavola di moltiplicazione per giovani poeti (Ibis, Como-Pavia 2012) . L’incontro personale e la frequentazione con il vecchio Pietro Prini lo ha indotto a curare il libro postumo del maestro, Ventisei secoli nel mondo dei filosofi (Salvatore Sciascia Editore, Caltanissetta-Roma 2015) e a scrivere la monografia Pietro Prini (Lateran University Press, Città del Vaticano 2016). Ha curato con altri studiosi: Credere oggi in Dio e nell’uomo. Pietro Prini filosofo del  dialogo tra fede e scienza (Armando, Roma 2018), Etica oggi tra empatia e libero arbitrio (Ibis, Como-Pavia 2019) e L’invasione della vita. Le scelte difficili nell’epoca della pandemia (Mimesis, Milano-Udine 2020).