Se la cultura politica dei cattolici democratici punta a reggere la sfida, provando ad essere ancora significativa, non può sottrarsi al rischio di esser considerata inattuale. Bisogna accettare il rischio di trovarsi nella classifica di quanti, per la pubblica opinione, sono fuori dallo spirito del tempo. Allora urge pensare che proprio dalle macerie può rinascere un pensiero e una prassi politica adeguata.
Giuseppe Davicino
Le riflessioni di Giorgio Merlo, questa volta sul ritorno delle culture politiche, vanno sempre dritte al punto.
La nostra tradizione politica ha dato il meglio di sé proprio nelle fasi in cui ha saputo contribuire a sciogliere nodi politici in apparenza inestricabili. Questo non lo si può mai fare andando a rimorchio della storia, ma interpretandola e cercando di anticiparla.
Se i cattolici democratici nelle varie stagioni avessero posizionato comodamente le loro vele nella direzione del vento che soffiava, ben difficilmente avrebbe potuto esserci l’esperienza del Partito Popolare di Sturzo, meno che mai l’elaborazione progettuale sotto il ventennio fascista che contribuì a far sorgere una forma di stato in radicale discontinuità con i regimi totalitari di allora e un modello economico per certi versi originale.
Successivamente, se da De Gasperi a Moro non fosse prevalsa una linea tutt’altro che scontata all’epoca, molto scomoda e subissata di critiche verso chi la intesseva, di laicità e di moderazione, contro le pressioni maccartiste,e contro le pressioni clericali a cui si contrappose la cultura delle alleanze, quindi contro le pressioni negli anni di piombo per una deriva da stato di polizia, cui si contrappose una risposta ferma ma senza nessuna menomazione dello stato di diritto, il ruolo della nostra tradizione politica non avrebbe potuto essere quello che è stato.
Se questo è vero allora credo che l’invito ai cattolici democratici a non aver paura di essere fuori moda, di tornare a disturbare, possa esser tradotto nella volontà di contribuire a farsi carico di una nuova mediazione fra capitalismo attuale, dell’industria 4.0 e della sorveglianza, e democrazia.
Dopo il crollo del comunismo, nonostante i lungimiranti moniti della Chiesa di Wojtyla, tale equilibrio è andato dissolvendosi. I poteri reali, finanziari, bio-tecnologici, tecnocratici hanno iniziato a progettare un modello di società che prescinde dalla democrazia, ma anche dal concetto di persona, di diritto naturale, da qualsivoglia forma di umanesimo.
I risultati di tale processo di frantumazione del compromesso fra capitalismo e democrazia abbiamo iniziato a scorgerli dapprima con la crisi del progetto europeo, passato nelle mani delle tradizionali élites economiche e tecnocratiche mitteleuropee, successivamente con una abnorme finanziarizzazione dell’economia a livello globale, parallelamente con l’invenzione occidentale di un altrimenti inesistente (quantomeno come minaccia globale) terrorismo “islamico”, messo in scena per giustificare trent’anni di initerrotte guerre nel Grande Medio Oriente.
I suddetti risultati li vediamo molto più nitidamente ora che una ristretta regia globale sembra voler indirizzare le democrazie occidentali attraverso sempre nuove emergenze verso approdi che difficilmente si conciliano con la libertà e lo stato di diritto.
Dunque, se la nostra cultura politica vuole continuare ad essere significativa non può sottrarsi al rischio di esser considerata inattuale, fuori dallo spirito del tempo, pur di riaffermare la necessità di un nuovo umanesimo. Si tratta di trovare il modo per rappresentare le istanze di giustizia dei molti, dei popoli, della classe media, ai tavoli veri, non certo quelli istituzionali purtroppo, dove si compiono le scelte decisive riguardo ai futuri modelli di società e di economia.
La nuova mediazione fra centri di potere che comandano de facto il mondo e la democrazia esige forze politiche che sappiano aggiungere punti all’agenda globale che non sono stati previsti da quelle élites e di toglierne o modificare altri che sono stati previsti. Esige di superare il rapporto di supordinazione oggi esistente fra politica e i nuovi centri decisionali globali finanziari, digitali, bio-tecnologici.
In mancanza di ciò (ma servono interpreti che sappiano perlomeno distinguersi pubblicamente dalla narrazione unica, che siano dotati di autonomia politica, culturale e di giudizio) non solo i cattolici in politica sono destinati a una prolungata insignificanza, ma si rischia la complicità con ciò che sta avanzando nel mondo.
Se non ci si arma di coraggio, di saggezza e di lungimiranza tempestivamente, mettendo in gioco e facendo fruttificare la nostra cultura politica, questa generazione di cattolici in politica avrà in comune con quelle precedenti solo il fatto di dover ricostruire dalle macerie e dalle devastazioni in arrivo, senza aver credibilmente provato neanche a scongiurarle.