Iran, la sfida è tra il riformista Pezeshkian e il conservatore Jalili.

Al primo turno l'affluenza si è fermata al 40%, indice del profondo scontento dell'elettorato per le politiche del regime, ma anche della scarsa fiducia in un cambiamento politico quasi impossibile.

L’Iran torna al voto venerdì per scegliere il successore di Ebrahim Raisi – morto il mese scorso in un incidente aereo – alla presidenza della Repubblica: a sfidarsi saranno il riformista Massoud Pezeshkian e l’ultraconservatore Saeed Jalili, chiaramente favorito dall’establishment religioso ma che dovrà fare i conti con un’astensionismo da record.

Al primo turno l’affluenza si è infatti fermata al 40%, il dato più basso dalla nascita della Repubblica Islamica, indice del profondo scontento dell’elettorato per le politiche del regime ma anche della scarsa fiducia in un cambiamento politico quasi impossibile nel quadro di un sistema in cui l’ultima parola spetta alla leadership religiosa incarnata nel Consiglio dei Guardiani.

La candidatura di Pezeshkian di fatto sembra essere stata autorizzata proprio per cercare di contenere l’astensione, correndo il rischio calcolato di un’affermazione al primo turno e – a questo punto – di una vittoria finale che non appare impossibile.

Non a caso alla vigilia del primo turno la stessa “guida suprema”, Ali Khamenei, aveva lanciato un avvertimento a Pezeshkian ribadendo come un’eventuale riavvicinamento agli Stati Uniti non fosse una “buona politica” e coloro che la predicano “non siano in grado di governare il Paese”.

Medico di professione, Pezeshkian era stato ministro della Sanità sotto Mohammed Khatami dal 2001 al 2005 ed aveva appoggiato pubblicamente l’accordo sul nucleare – probabile causa della sua esclusione dalle presidenziali del 2021; più di recente, ha criticato il governo per la mancanza di trasparenza sulla morte di Mahsa Amini.

La sua proposta politica comprende una maggiore apertura nei confronti dell’Occidente, con l’obbiettivo di poter arrivare a discutere delle sanzioni – il che diventerebbe una missione pressoché impossibile se alla Casa Bianca dovesse riapprodare Donald Trump.

Il rivale è invece assai più allineato con la linea dura sposata da Khamenei: Jalili, diplomatico ex viceministro degli Esteri, ha ricoperto l’incarico di Segretario del Consiglio Supremo della Sicurezza Nazionale dal 2007 al 2012 – posizione che gli valse la carica di caponegoziatore per l’accordo sul nucleare.

A suo giudizio è necessario semplicemente fare a meno di qualsiasi collaborazione con i Paesi con cui Teheran ha dei “problemi” (leggi in primis gli Stati Uniti) per migliorare invece i rapporti con tutti gli altri (vale a dire Russia e Cina, soprattutto) – linea che se dovesse venire eletto non avrebbe nessuna difficoltà a imporre, dato che coincide con le posizioni di Khamenei.

Una vittoria di Pezeshkian avrebbe invece esiti più incerti: come detto, non ha il potere di governare contro la volontà del Consiglio, e la sua azione politica – interna ed esterna – rimarrebbe costantemente sotto tutela come già accaduto ai suoi predecessori riformisti, Khatami e Rohani.

Un limite si cui l’elettorato è perfettamnet consapevole: epr qunato siano buone le intenzioni di Pezeshkian (peraltro un moderato, non certo un rivoluzionario antisistema) ad esempio in termini di allentamento delle restrizioni sull’Hijab difficilmente riuscirà a metterle in atto; quanto al miglioramento delle condizioni economiche del Paese, la principale preocupazione degli iraniani, non sembra un obbiettivo raggiungibile senza una revoca delle sanzioni occidentali – e quindi delle concessioni che il regime non è disposto a fare.