A Gaza, come era prevedibile, la tregua così faticosamente raggiunta fatica a reggere, ma la speranza di tutti è che, comunque, regga. Solo così si potrà passare alle fasi successive del “Piano Trump”, che del resto richiederanno interventi correttivi — anche sostanziali — possibili però solo se prevarrà una reale volontà pacificatrice.
Non sarà facile. L’odio accumulato in questi ultimi due anni peserà e condizionerà entrambe le parti in conflitto, favorendo al loro interno le frange estremiste che si oppongono a ogni possibile soluzione pacifica, a ogni possibile mediazione, a ogni ipotesi di convivenza fra i due popoli, quello ebreo e quello palestinese. Le ferite inferte negli animi sono profonde. Quelle che hanno devastato le comunità lo sono ancor più di quelle dei singoli.
Israele, un Paese solo e disorientato
Prendiamo il caso di Israele. Isolato e ormai largamente disprezzato nel mondo — dai comuni cittadini e dalle classi dirigenti — Israele è rimasto solo con sé stesso e con gli Stati Uniti guidati da Donald Trump. Un disprezzo quasi universale che può generare possibili conseguenze pericolose per gli ebrei nel mondo. Se ne intravedono già i segnali (per ora pallidi, ma inequivocabili).
Questo è il disastroso risultato conseguito dalla cieca rabbia omicida del governo Netanyahu, pieno di estremisti odiatori dei palestinesi e forse non solo di loro. Diffidare sempre degli estremisti, in qualunque luogo e in qualunque contesto storico.
Hanno trascinato Israele in un buco nero pieno di odio e risentimento che segnerà per generazioni, è lecito temere, la vita in quei territori. E l’hanno altresì indebolito anche al suo interno, perché non solo i parenti degli ostaggi, non solo i membri di Sinistra per Israele, ma anche tanti altri cittadini sono alla lunga rimasti disgustati dalla reazione sproporzionata ai tragici eventi del 7 ottobre 2023 e alla loro sostanziale rimozione, o quasi, dalla memoria collettiva del mondo, sostituiti dalle quotidiane immagini di distruzione, sofferenza e morte a Gaza.
Una società divisa e una democrazia in bilico
Si è così generata una spaccatura verticale della società israeliana, foriera di possibili violenze e forse anche di qualcos’altro.
Un qualcosa d’altro che potrebbe attentare alla stessa solidità della democrazia israeliana. La campagna elettorale, quando sarà, verrà vissuta con giusta passione ma anche con tanta rabbia da un Paese che mostrava visibili segni di divisione profonda già prima del 7 ottobre: un evento tragico che avrebbe dovuto unificare la nazione ebraica e che invece la guerresca reazione voluta dal governo ha impedito.
Un Paese diviso al suo interno diventa debole agli occhi del mondo esterno, anche se è molto forte militarmente. Netanyahu ha sempre sottovalutato questa verità, come ha dimostrato da ultimo nel suo grottesco intervento all’assemblea generale delle Nazioni Unite.
Il limite dell’alleanza con Washington
Si è sempre mosso nella certezza che il sostegno degli Stati Uniti non sarebbe mai venuto meno. Una scommessa che ha giocato spregiudicatamente prima col debole Biden (che però in qualche modo è riuscito a limitarlo almeno un po’) e dopo con l’amico Trump (che in un primo tempo gli ha lasciato mano libera, e si è visto con quali risultati devastanti per la popolazione di Gaza).
Ma il troppo a un certo punto diventa troppo anche per uno come Trump. Tutti gli osservatori concordano nel ritenere l’attacco militare operato in Qatar per uccidere alcuni dirigenti di Hamas come l’errore decisivo degli israeliani. In quel momento tutti gli alleati arabi degli Stati Uniti, sia quelli più vicini ad Hamas (il Qatar) sia quelli più ostili alla Fratellanza Musulmana (dall’Arabia all’Egitto), hanno espresso a Trump tutto il loro disappunto e qualcosa (molto) di più: il naufragio degli Accordi di Abramo, che hanno rappresentato l’intelaiatura della politica mediorientale del presidente americano così come architettata dal genero Jared Kushner (che non è, si badi, solo “il genero” bensì uno stratega di notevoli qualità, politiche e soprattutto imprenditoriali).
Il fallimento di una strategia di guerra permanente
Questo rischio ha mosso Trump, prima che le pressioni interne. Dove non solo i suoi avversari (dai Democratici agli studenti delle università, agli attivisti Pro Pal), ma pure tanti suoi elettori non comprendevano più il sostegno a Netanyahu, sia per quell’egoistico ripiegamento interno che ha costituito uno dei motivi della vittoria del tycoon, sia perché obiettivamente quello che stava avvenendo a Gaza era inaccettabile pure per loro.
Un primo messaggio Trump lo aveva inviato intervenendo direttamente in Iran, con le famose bombe di profondità sganciate sui suoi siti di arricchimento nucleare dopo aver intimato al premier israeliano di non andar oltre negli attacchi missilistici al regime degli ayatollah. Un secondo è stato l’umiliazione inflitta a Netanyahu con la telefonata di scuse che egli ha dovuto fare allo sceicco del Qatar Tamim bin Hamad al-Thani in favore di telecamera.
Da questo punto di vista Trump si è mosso in linea con la tradizione: storicamente gli USA hanno sempre sostenuto Israele, ma ne hanno pure contenuto i possibili esecrabili eccessi, sin dai tempi della guerra di Suez nel 1956.
Israele davanti al rischio dell’isolamento totale
Così, la distruttiva scelta di guerra del governo israeliano, la sua volontà di annientamento di un nemico esteso nei fatti da quello che esso effettivamente è — ovvero un gruppo terroristico quale Hamas — a un’intera popolazione civile si è trasformata non solo nel rischio di un’azione militare senza fine, non compresa neppure da molti dei militari che la stavano combattendo, ma anche in un errore strategico tale da porre Israele solo contro tutti nella regione e addirittura nella condizione di dover subire la reprimenda di Washington.
Infatti, come si è visto, perfino Egitto e Giordania, che con Tel Aviv hanno fatto pace da anni, sentendo il peso delle proprie opinioni pubbliche sempre più ostili nei confronti dell’arrogante prepotenza del potente vicino, hanno dovuto alzare la voce. La possibilità di avvicinamento con l’Arabia si è dissolta, e chissà per quanto tempo — a meno che il “Piano Trump” non si sviluppi secondo i suoi intenti ricostruttivi (anche nel senso letterale, edilizio).
Una nuova classe dirigente per un Paese ferito
Gli avversari tutto intorno sono certamente indeboliti, ma non definitivamente sconfitti. Così i miliziani terroristi, dagli Houthi a Hezbollah, e lo stesso Iran: e tutti questi sino ad ora non hanno rinunciato al loro imperativo esistenziale, l’annientamento di Israele. E adesso si staglia all’orizzonte un possibile nuovo avversario, la Turchia neo-ottomana di Erdogan, che si è avvicinata fisicamente a Israele attraverso la nuova Siria sunnita guidata dal ripulito al-Shara’, che è pur sempre stato un miliziano della jihad islamica in diverse sue organizzazioni. Una Turchia le cui ambizioni anche sul Mediterraneo – come dimostra la sua presenza in Libia – sono a tutti evidenti.
Governato da un premier che ha visto nella guerra permanente la sua cambiale di sopravvivenza politica e da due ministri psicopatici che godono nell’immaginare la scomparsa dei palestinesi, Israele ha perduto sé stesso, sepolto da un cumulo di macerie materiali ma soprattutto umane. E pure politiche.
E allora, nella speranza che la tregua regga e si evolva in un piano di pace perseguibile e perseguito da tutte le parti in causa, bisogna comunque riconoscere che ci vorrà tempo, molto, per costruire un tessuto comune di convivenza che possa condurre alla soluzione dei due Stati.
Per quanto riguarda Israele, del quale abbiamo parlato qui, è indubbio che ci vorrà una nuova classe dirigente, totalmente altra rispetto a questa che c’è adesso, imperdonabile. Dai palestinesi, dal mondo tutto. E pure dagli israeliani.