Ricordo ancora qualche anziano militante della sinistra che evocava incantato il kibbutz, il modello di villaggio rurale seguito dagli ebrei già prima della nascita dello Stato di Israele. Un villaggio-azienda nel quale i mezzi di produzione sono collettivi, non privati. Era la materializzazione di un sogno, che faceva breccia in ambienti non marginali della sinistra di tutto il mondo.
E un sogno era anche quello incarnato dall’Olp, un sogno che si situava lungo il solco dei movimenti di decolonizzazione e di più generale liberazione del Terzo mondo.
E poi i sogni si sono trasformati in incubi. La corruzione e le pratiche clientelari di Al-Fatah, la principale componente dell’Olp, hanno favorito l’affermazione e il prevalere, in particolare nella Striscia di Gaza, di Hamas. E a Israele la stella laburista si è gradualmente spenta, fino a cedere il posto a un premier come Benjamin Netanyahu.
Ora sembra ridestarsi il sogno della pace e della coesistenza pacifica. Non pochi interpretano la svolta delle ultime ore, legata all’iniziativa del presidente Donald Trump, come la conferma che non vi sia alternativa alla “realpolitik”; a quella concezione secondo la quale la Politica, quella con la maiuscola, non può che fondarsi sui rapporti di forza e sulle esibizioni muscolari.
È davvero così? Non credo. Se non mutano approcci e percorsi della politica, a ogni livello, saremo sempre alla posa della prima pietra, con il ciclico alternarsi di guerra e tregua. O, se vogliamo, di sogni e incubi.