Jimmy Carter, 39º presidente degli Stati Uniti, è ricordato come un leader morale, un uomo animato da una visione idealista del ruolo dell’America nel mondo. Nato nel 1924 a Plains, in Georgia, Carter crebbe in una famiglia di agricoltori e, dopo una carriera nella Marina, tornò alle sue radici per dedicarsi alla politica. Governatore progressista della Georgia, divenne presidente nel 1977, portando alla Casa Bianca una promessa di rinnovamento morale dopo gli scandali dell’era Nixon.
Carter incarnava una visione wilsoniana della missione americana, fondata sulla promozione dei diritti umani e della democrazia nel mondo. Questo approccio segnò la sua politica estera, ma gli attirò anche critiche per eccessivo idealismo. I suoi successi, come gli Accordi di Camp David tra Egitto e Israele, dimostrarono la sua abilità come mediatore. Tuttavia, il suo mandato fu segnato da eventi che ne oscurarono l’eredità politica.
Il caso dell’Iran, con la rivoluzione khomeinista e la crisi degli ostaggi dell’ambasciata americana a Teheran, fu il colpo più duro. Carter si trovò intrappolato tra una posizione di fermezza e la necessità di negoziare, ma ogni mossa sembrava destinata al fallimento. La rottura con il suo segretario di Stato, Cyrus Vance, simbolo del pragmatismo diplomatico, evidenziò le tensioni interne alla sua amministrazione.
A livello domestico, Carter fu penalizzato dall’economia stagnante e dall’inflazione crescente. La sua onestà e la sua integrità personale non bastarono a contrastare l’immagine di un presidente indeciso, lontano dalla realtà quotidiana degli americani. Nel 1980, fu travolto dalla carismatica candidatura di Ronald Reagan, che rappresentava una visione opposta: pragmatismo e ottimismo senza compromessi.
Dopo la presidenza, Carter risorse come un esempio di dedizione al bene comune. Con il Carter Center, si dedicò alla mediazione internazionale, alla lotta alle malattie e alla promozione delle elezioni libere, guadagnandosi il Premio Nobel per la Pace nel 2002.