Articolo pubblicato sull’Osservatore Romano a firma del direttore Andrea Monda
Chi ci separerà dall’amore di Cristo? chiedeva l’apostolo Paolo ai cristiani di Roma. E la risposta era incoraggiante: niente e nessuno, «né morte né vita, né angeli né principati, né presente né avvenire, né potenze, né altezza né profondità, né alcun’altra creatura potrà mai separarci dall’amore di Dio, in Cristo Gesù, nostro Signore» (Rm 8, 38-39).
Il Papa nell’omelia di domenica per la messa di conclusione del Sinodo speciale per l’Amazzonia, ha voluto però mettere in allarme il cuore dei cattolici rispetto a qualcosa di potente e insidioso che potrebbe spezzare questo legame, qualcosa che è un altro legame, quello che Francesco chiama “la religione dell’io”, una religione «ipocrita con i suoi riti e le sue “preghiere” — tanti sono cattolici, si confessano cattolici, ma hanno dimenticato di essere cristiani e umani —, dimentica del vero culto a Dio, che passa sempre attraverso l’amore del prossimo. Anche cristiani che pregano e vanno a Messa la domenica sono sudditi di questa religione dell’io».
Solo una religione può vincere un’altra religione, meglio ancora: solo un amore scalza un altro amore. Emerge evidente la lezione di Sant’Agostino che nel quattordicesimo capitolo de La città di Dio parla delle due città (terrena e celeste) e dei due amori (amor sui e amor Dei), per cui la prima è contraddistinta da «un egoistico amore di se stessi tale da arrivare a disprezzare tutto ciò che riguarda Dio», la seconda da «un amore spirituale verso Dio tale da mettere da parte ogni amore di sé». È come se questo amore egoistico creasse una coltre di nubi capace di non far arrivare il raggio luminoso dell’amore di Dio e isolasse l’uomo in un illusorio senso di onnipotenza che lo astrae dalla realtà e dalla propria verità (che per Paolo VIè la sostanza della virtù dell’umiltà).
C’è però un rimedio, esiste qualcosa che riesce ad aprire un varco, a permettere il ricongiungimento con il divino e secondo il Papa è una voce, anzi un grido: «In questo Sinodo abbiamo avuto la grazia di ascoltare le voci dei poveri e di riflettere sulla precarietà delle loro vite» ha detto Francesco esortandoci a una preghiera precisa, concreta: «Preghiamo per chiedere la grazia di saper ascoltare il grido dei poveri: è il grido di speranza della Chiesa» e ha ripetuto: «Il grido dei poveri è il grido di speranza della Chiesa. Facendo nostro il loro grido, anche la nostra preghiera, siamo sicuri, attraverserà le nubi». Il discorso prosegue con le immagini di luce, «Perché dal diavolo vengono opacità e falsità […] da Dio luce e verità, la trasparenza del mio cuore. È stato bello e ve ne sono tanto grato, cari Padri e Fratelli sinodali, aver dialogato in queste settimane col cuore, con sincerità e schiettezza, mettendo davanti a Dio e ai fratelli fatiche e speranze».
Ecco allora un primo frutto del Sinodo per l’Amazzonia che ha visto la vivace presenza delle popolazioni indigene all’interno dell’aula dell’assemblea: spezzare la religione dell’io, offrire la possibilità alla Chiesa di allargare lo sguardo uscendo dall’autoreferenzialità, allargare e insieme alzare lo sguardo, che si innalza proprio se riesce a chinarsi verso chi si trova nel bisogno: «Preghiamo per chiedere la grazia di sentirci bisognosi di misericordia, poveri dentro. Anche per questo ci fa bene frequentare i poveri, per ricordarci di essere poveri, per ricordarci che solo in un clima di povertà interiore agisce la salvezza di Dio. Sono loro che ci spalancheranno o meno le porte della vita eterna, loro che non si sono considerati padroni in questa vita, che non hanno messo se stessi prima degli altri, che hanno avuto solo in Dio la propria ricchezza. Essi sono icone vive della profezia cristiana». Un Sinodo dunque profetico, capace di attraversare le nubi dell’egoismo e gettare una luce di speranza per una Chiesa che lentamente sta apprendendo il modo per essere veramente sinodale, per camminare insieme.