L’autore commenta l’uscita nei giorni scorsi di un singolo di 17 minuti (Murder Most Foul) distribuito gratuitamente nel quale il “menestrello americano” riporta alla memoria l’assassinio di John Kennedy a Dallas, tanto da scuotere così, con la sua musica, la coscienza della pubblica opinione mondiale in questi giorni di dura emergenza sanitaria.
Se si può parlare di Dylan come poeta, occorre aggiungere che è un poeta religioso. La sua visione del mondo è quella di un ebreo e poi di un cristiano e, quasi per miracolo, entrambe le cose. Ma non stupiamoci più di tanto. Del resto Gesù era ebreo e in qualche modo lo è stato fino alla fine. Cristiano ci è diventato dopo la morte. Il Nuovo testamento si è aggiunto al vecchio, non è stato un rinnegamento. Così il menestrello di Duluth, nel Minnesota, immerso nella tradizione folk, respira a pieni polmoni la presenza di Dio nella storia e cerca ovunque di coglierne i segni, ma soprattutto il dramma di una salvezza che tarda a venire perché il male non molla la presa, non vuole abdicare agli angeli che suonano le chimees of freedom, la campane della resurrezione.
Questa premessa serve a cogliere alcuni aspetti fondamentali della visione della vita che emerge dalle canzoni (perché di tali si tratta) di Dylan. Certo, quelli religiosi non sono gli unici riferimenti ispiratori – ci mancherebbe – sarebbe estremamente limitato. Ma sicuramente la presenza di Dio nella storia è onnipresente, sin dai primi anni sessanta, fino a questo ultimo epico drammatico sospiro della vecchiaia (Dylan ha quasi 80 anni). Questi tempi dannati ci hanno proprio rivelato quanto la fragilità della vecchiaia sia l’espressione più palese e toccante della fragilità umana.
Murder Most Foul, l’assasssinio più nefasto, più orribile, è un’espressione palesemente ripresa dall’Amleto di Shakespeare. E’ anche il giorno dell’infamia (come non ricordare l’infamy speech di Roosevelt dopo Pearl Harbour?). E’ un buon giorno per vivere, ma è anche un buon giorno per morire (come non ricordare il vecchio capo Sioux in “Piccolo grande uomo”). Ma tutta la canzone (come buone parte della lunghissima antologia dylaniana) è una continua citazione. Gli esegeti più acculturati si sono sbizzarriti per decenni a coglierle tutte. E non a casa la Bibbia è il testo più saccheggiato.
L’assassinio nel nostro caso è quello di John Kennedy, il Presidente. Per gli americani quel novembre del 1963 segna una data spartiacque, la fine dell’innocenza, almeno quella presunta. Quelli della mia generazione restano forse sorpresi che non si fa cenno all’uccisione del fratello Bob. Per noi giovanissimi, militanti nell’Azione cattolica e moderatamente progressisti, fu la morte di quest’ultimo a strapparci una lacrima (now is time for the tears, chiude un’epica canzone dedicata all’uccisione di una povera inserviente nera). Immersi negli albori dell’«impegno» ci identificavamo nell’America della nuova frontiera, anche se quella più innovatrice del fratello minore. Ma non eravamo americani, eravamo italiani…
Per Dylan l’uccisione di John Kennedy costituì un trauma già allora. Fu turbato enormemente, tanto da spingerlo a una svolta nel suo genere musicale e soprattutto nella fonti della sua ispirazione: meno impegno politico, meno pointing fingers songs e più immersioni nelle contraddizioni e nella profondità della natura umana. Desta ancora meraviglia come Dylan scandalizzi l’ambiente liberal asserendo che chiunque, lui stesso, loro stessi, potevano incarnarsi in Oswald, perché l’assassino era un simbolo dell’America stessa. Una società che corre a comprare le armi, che ammette la violenza quasi come fonte biblica, che sembra misconoscere la solidarietà, la pietà e il perdono, può arrivare anche a uccidere il Presidente!
Ma Kennedy è the king, non è solo il Presidente. E’ colui che rappresenta l’America, quella delle speranze dei giovani che vogliono uscire dalla guerra fredda prima del tempo, quella che ascolta i Beatles e contesta la guerra nel Vietnam. Come non ricordare che Dylan, con Joan Baez, canta a Washington dopo che Martin Luther King ha gridato I have a dream! C’è chi ha scritto che nessuno ha interpretato gli anni sessanta come Dylan!
Oggi però quel periodo è troppo lontano.. Sembrano avvicinarsi i giorni dell’apocalisse. Dylan accompagna l’uscita della canzone con un breve testo nel quale si allude al corona virus. La notte è di nuovo sprofondata e la luce, almeno per ora, non squarcia le tenebre. Il suono stesso della canzone è quasi un lunghissimo (17 minuti!) pianto rituale, un lamento funebre. La perdita di un padre, come un sacrificio umano, è la perdita dell’anima di un popolo.
This land is condamned, all the way from New Orleans to Jerusalem aveva cantato molti anni fa nella magnifica Blind Willie McTell. Stiamo ancora scontando le pene per il male arrecato ai nostri fratelli, per l’egoismo di una società dove trionfa l’individualismo, dove il più forte non intende aspettare il più debole…Dylan oggi ce lo ribadisce, con il suo stile, il suo linguaggio, con un rosario di misteri continui, soprattutto dolorosi. Ma l’ebreo che è in lui, innamorato del Cristo, il Jokerman, intravvede la salvezza, conscio però che nessuno ne può cogliere i percorsi incomprensibili, sotterranei e impercepibili per la nostra limitatezza.