È necessario unirsi, non per stare uniti, ma per fare qualcosa insieme.
(Goethe)                                   

La genesi della cooperazione risale a Rochdale, anno 1844, per iniziativa di un piccolo gruppo di tessitori. Il modello cooperativo, che nella cittadina inglese prese forma, si diffuse presto in tutta Europa, in modi e in tempi diversi, ma proponendo i medesimi valori. L’epoca era quella della rivoluzione industriale e la cooperazione ebbe fortuna in quanto strumento per rimediare alle iniquità e agli squilibri che andavano producendosi. Il modello cooperativo mirava a dare lavoro a condizioni eque e dignitose, garantendo da forme di sfruttamento e permettendo ai ceti indigenti di migliorare gradualmente la propria condizione economica. Fin qui la storia. 

Oggi la domanda è: cosa resta di attuale dell’esperienza cooperativa? Per rispondere non basta fare appello alla grandezza della tradizione o a valori che si presumono “senza tempo”. È necessario indicare proposte concrete davanti alle sfide di oggi (digitalizzazione, transizione ecologica), che sono di certo foriere di nuove opportunità, ma rischiano di lasciare indietro molti e produrre nuove diseguaglianze. Come la cooperazione intende interpretare il proprio ruolo storico oggi e domani?

 

Presidente Daniele Ravaglia, che cosa c’è di attuale nella storia della cooperazione? E quali sono – alla luce della Sua personale esperienza – i valori della tradizione cooperativa da riscoprire oggi?

 

La storia della cooperazione è carica di significato. Fino a che non emersero le prime iniziative cooperative, l’attività imprenditoriale era condizionata alla disponibilità di capitali ingenti e alla capacità di chiedere ed ottenere credito. In una società rigidamente suddivisa in classi questa precondizione escludeva gran parte della società dall’iniziativa di impresa e relegava molti lavoratori in un vicolo cieco di occupazioni mal pagate e molto contese. Questo stato di cose permetteva a capitalisti senza troppe remore di impiegare il lavoro delle persone come qualunque altro mezzo produttivo: comprimendone il più possibile i costi e modificandone le quantità in base alle necessità del momento. 

La cooperazione ribalta tutti i valori: la remunerazione del capitale non è più il fine dell’agire di impresa, al suo posto si mette il lavoro e la persona. L’impresa cooperativa si preoccupa di retribuire equamente il lavoro, di avvantaggiare gli utenti e anche di produrre valore per la propria comunità. Questa prospettiva ci parla di responsabilità sociale d’impresa. Lo sviluppo sostenibile non è altro che l’estendersi di principi e metodi connaturati all’esperienza cooperativa. Con riferimento alla gestione di impresa, la cooperazione nasce dando valore alle singole persone: si decide che contano le teste della compagine sociale, non le quote possedute dai singoli soci. È la forma democratica che entra nel modello aziendale. A mio parere questa forma societaria resta attuale oggi più che mai, seppure qualche innovazione anche qui va portata. Lo spirito cooperativo ha dimostrato, specie in questi anni di pandemia, quanto sia basilare la valorizzazione del rapporto umano e del benessere sociale e non esclusivamente dell’imprenditore o dell’azionista. Addirittura oggi assistiamo a un fenomeno molto interessante: quello delle B-Corp (Benefit Corporation), società di capitali che in parte cercano di replicare il modello cooperativo quanto alle finalità cui tende l’impresa.

 

Considerando che Confcooperative proviene dall’associazionismo di matrice cattolica e dal movimento sociale che, facendo capo alla dottrina della Chiesa, ha preso forma a cavallo tra ‘800 e ‘900, Le chiedo che cosa rimane, in termini di ispirazione e di valori attuali – di questa eredità?

 

Non c’è una risposta univoca, dipende dalla sensibilità delle persone che gestiscono le cooperative. Sappiamo bene che oggi che il cristianesimo democratico e popolare non è più una parte politica, può però diventare un’eredità comune. Confcooperative è tra le organizzazioni che si fanno custodi e tentano di attualizzare questo patrimonio, richiamandosi espressamente nel proprio statuto ai principi della dottrina sociale della Chiesa. Credo che tra gli orizzonti di maggior attualità vi sia la valorizzazione della società civile e delle sue organizzazioni. Leone XIII scrive la Rerum Novarum – vero e proprio caposaldo moderno della dottrina sociale – in un periodo in cui ai cattolici era impedito l’impegno politico diretto. Si sentiva la necessità di essere presenti, di non estraniarsi: si rispose puntando sulle organizzazioni civili (cooperative, società di mutuo soccorso, iniziative editoriali e pedagogiche, etc). Si diede vita ad un movimento sociale di orientamento cattolico di cui la cooperazione è stata parte importante. 

Oggi i connotati identitari sono più sfumati, ma attualissima rimane la centralità della società civile. Si è resa evidente la necessità di superare il binomio Stato-mercato: in vista del bene comune serve un terzo polo che coinvolga la società nelle sue forme organizzate, dal volontariato alle cooperative, dagli enti filantropici alle associazioni di promozione sociale. La dottrina sociale della Chiesa indica questa via da tempi antichi, riproponendola alla modernità a partire dalla Rerum Novarum e dai suoi sviluppi.

 

Quali prospettive provenienti da questo passato possono dunque illuminare il presente? Mi riferisco al valore culturale, associativo, organizzativo e di supporto che il mondo cooperativo può offrire sul piano economico e sociale, secondo le sue peculiarità.

 

Domanda interessante. Le organizzazioni della società civile – cooperazione in primis – possono assumere un ruolo più ampio di quello giocato finora. A Bologna, ad esempio, le cooperative danno lavoro a 80mila persone, sviluppando un fatturato di alcuni miliardi di euro e in molti ambiti esprimendo aziende leader nell’innovazione. Serve un passo in più. Dove ve ne sono le condizioni, le cooperative dovranno farsi promotrici di un rinnovamento del dialogo con le istituzioni, assumendo una voce importante nella scelta delle politiche pubbliche. È il paradigma della sussidiarietà circolare, eredità della dottrina sociale: le organizzazioni della società civile e le istituzioni avviano un dialogo aperto e trasparente in vista di un disegno di società condiviso. Finora abbiamo vissuto due dimensioni della sussidiarietà: quella verticale, che riguarda i rapporti tra enti pubblici e cittadinanza; quella orizzontale, in cui il pubblico delega attività a enti espressione della società civile quando ritiene che essi possano dare risposte più vicine all’interesse generale. Oggi il codice del Terzo Settore dà strumenti giuridici per un cambio di passo verso la sussidiarietà circolare. Si prescrive infatti l’implementazione del paradigma della coprogrammazione e della coprogrettazione (art. 55). La prima parola indica la scelta condivisa delle priorità di azione, la seconda riguarda la messa a terra concordata di interventi concreti. In Emilia-Romagna abbiamo alcuni esempi virtuosi, a partire dal Patto per il lavoro e per il clima. Si tratta di sistematizzare questo approccio, che supera i rischi del dirigismo pubblico e dell’individualismo privatistico, valorizzando il pluralismo democratico, linfa vitale di ogni società. Bologna è il primo Comune in Italia ad essersi impegnato direttamente, con la costituzione di una “delega alla sussidiarietà circolare”. Ci aspettiamo molto.

 

Le organizzazioni di rappresentanza delle cooperative hanno eredità molto diverse: Legacoop viene dal socialismo, Agci dalla tradizione repubblicana. Come si presentano e si compongono oggi queste differenze in un mutato quadro economico e sociale?

 

L’economista Stefano Zamagni ricorda sempre che la cooperazione nasce tricolore (il verde repubblicano, il bianco cattolico, il rosso socialista) ed è per questo che rappresenta il Paese. Oggi che la stagione ideologica è superata, la differenza di provenienze e di sensibilità diviene ricchezza per tutti. 

Inoltre, ho una radicata convinzione: se andiamo a chiedere ai soci di una qualsiasi cooperativa a quale associazione vorrebbe che la sua azienda aderisse, la risposta sarebbe certamente “a quella che mi garantisce il lavoro e una vita dignitosa”. Nessuno farebbe una scelta ideologica. 

Va inoltre detto che le cooperative di differenti matrici collaborano bene, a Bologna lo vediamo ad esempio sul fronte della rigenerazione urbana. I progetti più ambiziosi spesso vedono questo tipo di collaborazione: le cooperative mettono insieme risorse finanziarie, competenze, relazioni, progettualità. I risultati parlano di ricadute positive per tutta la comunità. Non a caso, si è costituita l’Alleanza delle cooperative, organizzazione che nasce per rappresentare unitariamente Agci, Confcooperative e Legacoop. Non è così in tutti i territori, purtroppo, perché permangono divisioni estemporanee. A Bologna sperimentiamo l’efficacia della rappresentanza comune. Pensiamo ad esempio al Protocollo appalti con cui, insieme ai sindacati, abbiamo ottenuto dal Comune che i servizi nei quali la componente del lavoro è prevalente non possano venire appaltati al massimo ribasso. Nelle attività in cui il lavoro è la principale voce di costo – pensiamo alle mense, ai servizi di pulizia e sanificazione – gli appalti al massimo ribasso finiscono per schiacciare verso il basso le retribuzioni. Si tratta di una misura molto concreta a tutela del lavoro, a cui siamo stati in grado di giungere dialogando con le istituzioni con una voce sola.  

 

Siamo inclini solitamente a pensare che siano o debbano essere i sindacati farsi carico della centralità e della dignità del lavoro. Che rapporti sussistono tra l’associazionismo cooperativo e le i rappresentanze sindacali dei lavoratori? Con quali valori aggiunti reciproci?

 

La cooperazione e i sindacati nascono e si diffondono nello stesso periodo storico. Sono forme distinte di reazione alle iniquità che la rivoluzione industriale ha portato con sé. I sindacati intrapresero la via rivendicativa, chiedendo diritti all’interno dei contesti produttivi esistenti utilizzando varie forme di pressione, compreso lo sciopero. La cooperazione si diffuse costituendo un’alternativa pratica ai modelli che generavano sofferenze sociali e iniquità. 

Sono forme diverse di agire in vista di un fine che, almeno in parte, è comune e che condividiamo ancora oggi ad esempio nella lotta alle finte cooperative, che usano strumentalmente la forma cooperativa, contraddicendone i valori. A Bologna, la collaborazione ha portato alla nascita di un Osservatorio congiunto sul workers buyout, le imprese rigenerate dai lavoratori. Quando si manifestano fasi di crisi o la necessità di turn over, i lavoratori possono decidere di rilevare l’azienda e portarne avanti l’attività attraverso la forma cooperativa. Si garantisce così la continuità occupazionale, si conserva il capitale umano (attitudine al lavoro, competenze, relazioni) e si evitano gli ammortizzatori sociali, che pesano sui conti pubblici. L’Osservatorio ha il compito di monitorare le situazioni, valutando i rischi e accompagnando i lavoratori. 

 

La cooperazione fu strumento di riscatto e di giustizia sociale durante la rivoluzione industriale. Davanti alle grandi trasformazioni che viviamo – digitali, ecologiche, tecnologiche – che cosa può offrire la cooperazione, oggi?

 

Il compito più importante – il mandato storico della cooperazione – è continuare a garantire, pur nelle difficoltà delle transizioni, la centralità del lavoro e della persona nel lavoro. C’è necessità di aggiornarsi.  Sul fronte della sostenibilità molto spesso le cooperative sono un passo avanti. Non sempre manifestano la stessa capacità di innovazione tecnologica. Ciò anche in ragione del fatto che gran parte delle coop operano in settori tradizionali, dove i modi della produzione faticano ad aggiornarsi (dai trasporti all’agricoltura) anche per resistenze culturali. C’è un deficit di formazione e informazione a cui è necessario supplire. Spesso poi le cooperative incontrano alcune difficoltà nel reperimento di risorse finanziarie, che per imprese di certe dimensioni sono necessarie in quantità ingenti. Le società di capitali rispondono più facilmente ai requisiti previsti da normative europee (in particolare dalla BCE) sulla finanziabilità, se non altro per una più ampia capacità di patrimonializzarsi.

Ricordo che le cooperative possono aumentare il proprio patrimonio o attraverso le quote sociali o con gli utili utile, entrambe le soluzioni non permettono forti incrementi in poco tempo. 

Di qui, l’esigenza di prendere strade innovative ma sempre assolutamente nel solco valoriale della cooperazione: penso alle società di capitali controllate al 100% da cooperative. In questo caso, la società di capitali non è che un mezzo in mano alla cooperativa, non ne inficia la natura. Si accede ai capitali necessari all’innovazione e al contempo si salvaguarda lo spirito cooperativo.

 

Sono in molti a denunciare una scarsa aderenza delle grandi cooperative ai valori fondativi ed istituzionali enunciati. È così? C’è il rischio di uno snaturamento con l’aumentare delle dimensioni organizzative e della pluralità degli interessi?

 

Il rischio c’è. Nelle grandi cooperative il rischio di un’eccessiva centralità del management e la perdita di ruolo dei soci è evidente. Inizialmente, può sembrare quasi un’opportunità: si affida l’azienda a manager capaci di massimizzare i risultati economici e ci si leva il pensiero. Sul medio e lungo termine questa scelta si può rivelare una trappola: la cooperativa rischia di perdere equilibrio, la compagine sociale diviene marginale e si disgrega, si perde aderenza al territorio, alla missione originaria, si dissipano relazioni e reputazione. A questo punto, ci si ritrova con un’azienda senza identità e si rischia grosso anche in termini di tenuta. Bisogna non caderci. E qui la differenza la fa la governance della cooperativa: amministratori e dirigenti, che devono essere formati sia sotto l’aspetto professionale, sia sotto l’aspetto valoriale.

Credo non sia utile avere un dirigente “bocconiano”, molto qualificato, se poi si finisce per operare come una qualsiasi azienda commerciale. Non si può trascurare l’importanza dei soci: più la cooperativa si amplia e l’insieme di interessi da esprimere si fa complesso, più è necessario potenziare e rendere capillari le strutture di rappresentanza interne alla cooperativa. La banca cooperativa che dirigo – Emil Banca – conta 50mila soci e ha comitati che ne rappresentano le istanze a tutti i livelli: nei quartieri cittadini, nei piccoli comuni, addirittura a livello di frazioni e borgate, e questo tanto nelle zone di insediamento storico, quanto nelle aree dove siamo approdati da poco. La compagine sociale si sente rappresentata e contribuisce a dare indirizzo alla banca. Tante sono le cooperative che hanno applicato strategie simili per crescere senza snaturarsi.

 

Quali sono oggi le sfide più significative e condivise per il modello cooperativo in termini di aggiornamento e crescita culturale e sociale? Faccio riferimento al valore dell’intermediazione sociale, sempre richiamata dal CENSIS e – purtroppo – oggi caduta in disuso.

 

È vero, il capitalismo della disintermediazione ha fatto grandi danni. L’idea che si potesse risolvere tutto potenziando l’individuo e slegandolo dalle relazioni identitarie è stato un errore storico che ancora paghiamo. I corpi intermedi in Italia hanno retto meglio che in altri contesti, pensiamo ad esempio al Regno Unito. Ciò non toglie che la crisi di rappresentanza c’è ed è grave. Credo sia necessario agire su tre linee convergenti: in primis, i corpi intermedi devono proporre un nuovo patto di rappresentanza e meritarsi la fiducia dei soggetti di cui hanno il mandato. Saremo vagliati dall’opinione pubblica e dovremo risultare credibili. Il che significa ridefinire in modo chiaro priorità e obiettivi, aggiornare le competenze, agire e comunicare con trasparenza. Serve poi un passo avanti delle istituzioni, che sempre più dovranno considerare i corpi intermedi i propri alleati naturali per un’amministrazione di successo della cosa pubblica. La politica ha un ruolo importante nel legittimare le organizzazioni della società civile e viceversa. Infine, il mercato e i suoi operatori dovranno comprendere appieno il nuovo corso e fare spazio a logiche rinnovate, che comprendano finalità diverse e superiori dal mero profitto e includano dinamiche tese al bene comune (il paradigma della sostenibilità in tutte le sue dimensioni: sociale, ambientale di governance). Si tratta di processi già in corso, per questo – credo – possiamo concederci un cauto ottimismo.

 

Daniele Ravaglia

Presidente di Confcooperative Bologna e di Alleanza Cooperative Bologna (unione delle tre grandi realtà cooperative: Agci, Confcooperative e Legacoop), nonché Direttore Generale della “Emil Banca-Credito Cooperativo”.

 

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