Articolo pubblicato sulle pagine della rivista Il Mulino a firma di Alberto Parmigiani

A seguito dell’assalto al Congresso del 6 gennaio, è sorto un vivace dibattito, originariamente su Twitter, legato al tema delle disuguaglianze. Se dimostrare il collegamento diretto tra le disuguaglianze e le rivolte di Capitol Hill è chiaramente problematico, nel senso che identificare relazioni causa-effetto nelle scienze sociali è intrinsicamente difficile, argomentare contro l’importanza cruciale della disuguaglianza nei processi politici legati all’elezione di Trump e alla polarizzazione del suo elettorato fino agli eventi del 6 gennaio è semplicemente irrealistico. O per lo meno fuori dalla realtà della discussione accademica di questi temi.

Per dare un’idea dell’evoluzione della disuguaglianza economica, vorrei partire da questo grafico (fonte: elaborazione dell’autore, su dati US Census Bureau)

Mostra due variabili, il reddito mediano reale delle famiglie (scala a sinistra) in blu e la disuguaglianza economica (indice di Gini, scala a destra) in rosso, in Michigan, lo Stato più colpito dalla crisi del 2008. Dal grafico si vede che nel 2019 non si è ancora raggiunto il livello di reddito del 1969, nonostante la ripresa degli ultimi cinque anni. Non si può fare a meno di chiosare, senza voler dimostrare nulla, che a Lansing, capitale del Michigan, si è verificato un precedente dell’assalto al Congresso il 30 aprile del 2020, quando milizie armate sono entrate nel campidoglio statale per protestare contro le misure di lockdown.

Adesso dal caso estremo del Michigan allarghiamo il quadro: nella grande maggioranza degli Stati americani, trenta su cinquanta per cui i dati sono disponibili, il reddito reale delle famiglie nel 2019 era minore di quello del 1999, nonostante la ripresa degli ultimi anni dopo la crisi del 2008. Negli stessi due decenni, la disuguaglianza è aumentata in tutti e cinquanta gli Stati, tra l’altro partendo da valori già alti rispetto ad altri Paesi occidentali. Stati come New York, Florida e California, dove il reddito reale ha avuto un buon tasso di crescita, in controtendenza rispetto alla maggioranza degli altri Stati, hanno un livello di disuguaglianza tra i più alti degli Stati Uniti, e l’indice è cresciuto anche nei primi due decenni degli anni Duemila. Questo significa che anche dove la ripresa c’è stata, questa è stata in gran parte appannaggio della parte più ricca della popolazione. Nella maggioranza degli Stati, il reddito reale mediano è diminuito e la disuguaglianza è cresciuta, doppia statistica che dice molto sui motivi della rabbia dei ceti medi e bassi della popolazione.

I sondaggi a caldo hanno mostrato che quasi metà degli elettori repubblicani, e circa un quinto dell’elettorato totale, erano favorevoli all’assalto al Campidoglio. Una grande maggioranza di elettori repubblicani (tra il 60 e il 75%) e circa un terzo dell’elettorato pensa anche dopo mesi di distanza che le elezioni di novembre siano state truccate. La polarizzazione estrema dell’elettorato americano, e segnatamente lo spostamento a destra del Partito repubblicano, sono fenomeni che vengono da lontano. Dalla fine degli anni Settanta c’è stata negli Stati Uniti un’offensiva politica che ha perseguito un cambiamento del paradigma economico dei Trenta Gloriosi, da una parte creando un network culturale di fondazioni e think tank per influenzare l’opinione pubblica e dall’altra accrescendo il loro potere di influenza politica, in primo luogo tramite le contribuzioni finanziarie. Voglio in questo spazio concentrarmi su questi due aspetti della questione, partendo dal presupposto, dimostrato empiricamente, che gli ultra ricchi hanno preferenze politiche differenti dal resto della popolazione (più a favore del mercato, meno a favore di ogni intervento dello Stato nell’economia).

 

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