La figura di Pasquale Saraceno 

Economista cattolico, partecipe della ricostruzione post bellica, teorico della politica di programmazione, valtellinese di “fede meridionalista”.   Il testo è preso dal nuovo numero 0 del periodico “Democraticicristiani – Per l’Azione” dell’Associazione Nazionale dei Democratici Cristiani (ANDC). In fondo all’articolo si può digitare il link per accedere alla pubblicazione in pdf.

Nel 150º di fondazione della Bps, Franco Monteforte ricostruisce il ruolo e gli studi poco conosciuti del grande economista di Morbegno, scritti in occasione del centenario dell’Istituto nel 1971. L’articolo è stato pubblicato sul n. 146 (agosto 2021) del “Notiziario della Banca Popolare di Sondrio” con il titolo “Pasquale Saraceno storico della Banca Popolare di Sondrio”. Lo stralcio della parte iniziale è stato autorizzato dalla direzione del “Notiziario”. Il testo integrale può essere letto digitando il link posto alla fine del testo.

Padre nobile, insieme a Donato Menichella e Alberto  Beneduce, delle partecipazioni statali e dell’impresa  pubblica come espressione degli  interessi  collettivi,  fermo  sostenitore  dello  sviluppo  autonomo  del  Mezzogiorno e del superamento del dualismo Nord-Sud come  compimento  dell’unificazione  italiana, maestro  di  decine  di manager ed economisti aziendali alla Bocconi, alla  Cattolica e infine a Ca’ Foscari, protagonista della breve stagione della programmazione economica a fianco di Ezio Vanoni del cui Piano (in realtà solo uno Schema di sviluppo dell’occupazione e del reddito in Italia) fu il maggiore artefice, Pasquale Saraceno è solitamente ricordato come il grande tecnico di Stato, il commis d’État, spesso profeta  inascoltato, della ricostruzione postbellica e della politica economica degli anni degasperiani. 

Ma  dietro quella sua rocciosa solidità tecnica e quella laica  razionalità scientifica del suo pensiero stava un altrettanto  saldo sistema di valori cristiani, fondato sull’idea del  bonum commune della tradizione cattolica, del lavoro come base della dignità dell’individuo-persona e della giustizia sociale come fondamento dell’uguaglianza, lotta al  privilegio e idea direttiva dello sviluppo economico e di una società ben ordinata. È con questo bagaglio etico che, fra il 1943 e il 1944, Saraceno aveva attivamente partecipato  all’elaborazione di quello che è passato alla storia come il  Codice di Camaldoli, che aggiornava la dottrina sociale della Chiesa e che tanta influenza avrebbe esercitato, nel  corso dei lavori della Costituente, sull’élite politica cattolica e sulla formulazione dei princìpi fondamentali della nostra Costituzione, specie in tema di lavoro e di ruolo dello Stato  nell’economia, in  cui  il  nostro  Paese  andava  anche  oltre  quell’idea  di “economia  sociale  di  mercato” che con Wilhelm Röpke si affermava allora in Germania, e quella  concezione del Welfare State che Lord Beveridge diffondeva in Inghilterra. 

A quel documento, pubblicato nell’aprile del 1945 col titolo  Per la comunità  cristiana. Principi dell’ordinamento sociale  a  cura  di un gruppo di  studiosi amici di Camaldoli, aveva contribuito un gruppo di giovani laureati dell’Azione  Cattolica  che  comprendeva  tra  gli altri  Giulio  Andreotti,  Aldo Moro, Mario Ferrari Aggradi, Giorgio La Pira, Paolo Emilio Taviani, il  filosofo del diritto  Giuseppe Capograssi  e  Ludovico Montini, fratello del cardinal Montini, futuro  Paolo  VI, che del gruppo era il punto di riferimento ecclesiale. Ma il capitolo centrale sui problemi economici e finanziari era stato interamente scritto dalla cosiddetta “triade  valtellinese”, vale a dire  Ezio Vanoni, Pasquale  Saraceno  e Sergio Paronetto, tutti nativi di Morbegno in Valtellina e legati fra loro da forti vincoli di amicizia rafforzati dalla  comune militanza cattolica. 

Vanoni e Saraceno erano stati a Morbegno compagni di  classe alle elementari e la loro amicizia si era consolidata  anche dopo il trasferimento dei Saraceno a Milano, nel corso delle lunghe estati che Pasquale, insieme ai fratelli, amava trascorrere in Valtellina coi Vanoni, a S. Martino  Valmasino, dov’era maturato presto anche l’amore per Giuseppina Vanoni, sorella di Ezio, che Saraceno, giovane incaricato di tecnica bancaria alla Bocconi,  aveva  sposato  nel settembre del 1930  e  con  cui  tre  anni  dopo,  quando  era stato assunto da Donato Menichella all’IRI come responsabile della sezione  finanziamenti, si era trasferito  a  Roma, dove Ezio Vanoni insegnava già Scienza delle finanze e Diritto finanziario.

Fu a Roma che Saraceno, fra le prime persone, conobbe  Sergio Paronetto. 

Nato a Morbegno nel 1911, Paronetto aveva lasciato la Valtellina con la famiglia a soli sette mesi seguendo le  peregrinazioni del padre, impiegato nell’amministrazione statale,  ma  ai  fratelli  Vanoni  lo  legava  la  stretta amicizia fra la loro madre, Luigia Samaden, e la propria, Rosa Dassogno, figlia di un’agiata famiglia di Berbenno e storica figura del cattolicesimo valtellinese, che nel 1907 aveva  fondato il Movimento  femminile  delle donne  democratico-cristiane,  nell’ambito  di quella che fu in Valtellina la prima Democrazia cristiana di don Enrico Sala. 

Più giovane di sette anni rispetto a Vanoni e Saraceno,  Paronetto, allora caporedattore all’Illustrazione vaticana, li aveva presto conquistati con quella sua disarmante  capacità  di  unire  alla  vasta  preparazione  culturale una fede trascinante, che faceva riscoprire ai due amici  valtellinesi come fondamento etico e senso ultimo dell’azione politica e dell’attività  economica,  al  punto  che  Saraceno lo aveva voluto già nel ’34 all’IRI prima come  responsabile dell’Ufficio studi e poi come capo della sua  segreteria tecnica, facendone il suo più stretto  collaboratore. 

Si era così formata, all’interno del movimento  dei  laureati  cattolici, quella “triade  valtellinese” che nel ’44-’45 sarebbe stata il perno della  redazione del Codice di Camaldoli, di cui Paronetto, per unanime riconoscimento dei suoi autori, fu l’indiscusso animatore. 

Ma Paronetto, morto prematuramente nel marzo del ’45,  quel Codice non l’avrebbe mai visto pubblicato. In  compenso la sua sotterranea eredità nel mondo politico  cattolico e all’interno della stessa IRI sarebbe a lungo  sopravvissuta. 

All’IRI,  in  particolare,  era  stato  accanto a Saraceno negli anni in cui prendeva corpo la filosofia dell’impresa pubblica  come strumento di riunificazione nazionale e di superamento dello squilibrio Nord-Sud, non in  concorrenza  ma a fianco dell’impresa privata, in un contesto di economia di mercato. 

Per  Saraceno l’unica via d’integrazione del Mezzogiorno  nell’economia nazionale era quella di stimolare in esso,  attraverso grandi poli pubblici nei settori dell’industria di  base, un autonomo sviluppo economico moderno, fondato su una rete diffusa di piccole e medie imprese, che  i grandi gruppi industriali privati del  Nord  – che  del  sottosviluppo  del Meridione erano stati fino allora i beneficiari e ad esso guardavano come mera appendice  territoriale  del  proprio  stesso sviluppo – non sarebbero mai riusciti ad assicurare. 

L’autonomia dello sviluppo industriale del Sud diventava così garanzia non solo di equilibrio e razionalità dello  sviluppo economico nazionale ma anche strumento di eguaglianza e giustizia sociale, fine ultimo della politica economica dello  Stato. 

 

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