Lodovico Antonio Muratori (1672-1750), nel meraviglioso trattato Del governo della peste e delle maniere di guardarsene del 1714, dal quale s’imparano cose ancor oggi preziose per evitare contagi, pur riferendosi prevalentemente alle epidemie del ‘600 durante la guerra dei trent’anni, ricorda che “una delle più terribili pestilenze che si sieno mai provate”, sorta in Cina nel 1346, arrivò in Sicilia nel 1347 e l’anno dopo infettò “tutta l’Italia, salvo che Milano…ove fece poco nocumento”. Si estese poi in tutta Europa e quindi “tornò indietro di nuovo…in Italia nell’anno 1361, ove desolò Milano…e Venezia.” La pestifera mortalità a Firenze nel 1348 è descritta da Boccaccio nella prima giornata del Decàmeron. Francesco Petrarca, nel De Remediis utriusque fortunae, scrive che “Tanti sono i funerali che vedo, ovunque getti lo sguardo, che gli occhi mi si oscurano.” Nelle Historie universali de suoi tempi il fiorentino Matteo Villani (1295?-1363), descrivendo gli orrori di quella peste, nota che essa “hebbe infermita tutta Italia, salvo che la città de Milano…”.
Lo storico dell’università di Friburgo in Svizzera Volker Reinhardt, studiando i molti dettagliati resoconti e trattati di quella pestilenza, dedica particolare attenzione a ciò che protesse Milano. L’eccezione di Milano era già allora vistosa e discussa. A Milano s’ammalarono e morirono tre famiglie. A Piacenza, poco distante, morì un terzo della popolazione. Risparmiata fu anche la Polonia, nelle mani di re Kasimir III, ove si può pensare che abbia influito l’assenza di grandi città. In esse, nota Muratori, “non è si facile, che la Peste ceda presto, perché il pascolo della Morte è grande.” Milano era, nel XIV secolo, una delle maggiori città d’Europa. Che cosa la salvò? La domanda, oggi che si è immersi in una pandemia con moltissimi contagi e morti, è d’attualità. La peste era attribuita ad alterazioni dei quattro umori umani in seguito all’allineamento sfavorevole degli astri. In realtà si tratta di un’infezione batterica acuta trasmessa da topi e pulci. Era “assoluta volontà di Dio”, scrive Villani, punire con essa gli uomini per i loro peccati. Ciononostante a Milano, e solo a Milano, durante i 6 anni in cui la popolazione italiana si ridusse della metà, si trovò il modo di evitarla.
Il signore, di fatto il tiranno di Milano Luchino Visconti fu l’artefice di ciò che per secoli è stato considerato un miracolo. Da un ramo collaterale della sua famiglia nascerà il regista con lo stesso nome (1906-1976), che ne La morte a Venezia filmò non la peste ma il colera descritto da Thomas Mann. L’illuminista Pietro Verri, nella Storia di Milano del 1783, parla di Luchino come di un despota immorale e spregiudicato che decideva questioni gravi senza cercare consigli e consensi. Agì secondo l’idea che la malattia fosse trasmessa dall’aria per cui la città doveva essere chiusa. “Isolarsi, isolarsi, isolarsi” era il suo motto, che realizzò con determinazione.
Nel 1347, non appena ebbe notizia di ciò che stava accadendo in Sicilia, prese ad accumulare vettovaglie per i 150mila milanesi (in tempi preindustriali, nota Reinhardt, impresa tutt’altro che semplice), chiuse le porte della città e sottopose persone, animali e merci a rigorosi controlli. La ragion di peste era ragion di stato e non s’indugiava nemmeno con decisioni tremende. Le uniche tre famiglie contagiate furono isolate in case con porte e finestre murate e, verosimilmente, lasciate morir di fame, dato che nessuno poteva accudirle. L’isolamento era l’unica difesa, a qualunque costo, e ciò giustificò la macabra determinazione di sacrificare 12 vite per salvarne più di diecimila volte tante. Il signore non poté godersi la gratitudine della gente perché morì alla fine del 1349, avvelenato, si disse, dalla moglie. Sette secoli fa della malattia non si sapeva nulla e a Milano si salvarono quasi tutti, oggi della pandemia virale ci si illude di sapere tutto e moltissimi non si salvano, specie a Milano e dintorni. La biologia dei coronavirus è in realtà ancora poco conosciuta. Reinhardt racconta che in molti blogs e tweet in Italia nel 2020 si leggeva Dateci un secondo Luchino Visconti oppure Avessimo avuto un Luchino Visconti già in gennaio o febbraio!
Il libro tratta della peste a Parigi, Francoforte, Firenze, Siena, Venezia, Avignone e Piacenza, di cui si tramandano cronache dettagliate. Di Roma non si sa nulla, perché le pagine sulla peste della Cronica dell’Anonimo romano sono scomparse e perché la città aveva perduto interesse da quando il Papato, 40 anni prima, s’era trasferito ad Avignone. Gli eventi, i pregiudizi, le fantasie sulla peste sono inseriti nelle vicende delle comunità e dei loro spesso infami reggitori. Gli intrighi, le prevaricazioni, le truffe di magistrati, ecclesiastici, nobili e di coloro che Boccaccio chiama i beccamorti, che derubavano morti e moribondi, e le sommosse della plebe affamata furono una trafila di disumanità che non insegnò niente. Si ripeté ogni volta, “perché le teste umane”, scrive Muratori “saran quelle di sempre”. Ciò che succede ora, con i traffici illeciti e le bieche truffe sui vaccini, mascherine ed altro è la conferma che l’umanità non cambia. I morti ed i contagiati dal virus Covid-19 nelle democrazie orientali (Corea del Sud, Giappone, Singapore), nelle quali ci fu immediato consenso fra maggioranza e opposizione su rigorosi provvedimenti preventivi, sono molto inferiori a quelli delle democrazie occidentali. “I Magistrati, considerando per tempo…l’eccessiva miseria.. del flagello” dovrebbero mettere in opera, ammonisce Muratori, “qualunque possibile mezzo e diligenza per preservarsi, e per tenerlo lungi.” Anziché seguire l’ammonimento vecchio di quattro secoli, in Italia la pandemia è un penoso conflitto fra centrosinistra, incline al rigore, e centrodestra, che ne nega tragicamente e ciecamente la necessità. Il tutto aggravato dalla tensione fra governo e regioni. Non ci si meravigli se l’Italia è in una condizione tragica.