Da Cortona è partito un messaggio forte, con parole improntate, si direbbe nello stile misurato della diplomazia, a sconcerto e preoccupazione. Franceschini ha suonato l’allarme: la scissione va evitata a tutti i costi. Ma cosa fare, in concreto, per dissuadere Renzi dal mettere in atto ciò che i suoi amici vanno dicendo a squarciagola in questi giorni? A riguardo, non si è visto uno sforzo convincente. Anzi, l’elogio riservato a Zingaretti per la sua attitudine all’inclusività deve aver sortito un risultato controproducente.
Ma il passaggio più sofferto è stato quello sul pericolo di una scissione nient’affatto consensuale. Non ha usato giri di parole, Franceschini: “Quando spacchi un partito è sempre traumatico”. Su questo punto invero decisivo, tanto da essere ripreso sui giornali di stamane anche da altri dirigenti del partito (Zanda in particolare), nonché dal “Popolare” Castagnetti, si coglie nettamente un distinguo dalla posizione di Bettini. Se questi fa spallucce, assicurando finanche comprensione per il gesto eventuale di rottura, ben altrimenti reagisce il capo della delegazione del Pd nel governo. Segno di un disagio che affonda le radici nell’inevitabile travisamento – una volta consumata la scissione – della storia e dell’identità del partito. Non a caso Franceschini parla di alleanza, anche in periferia, con i Cinque Stelle. Lungi da lui evocare l’ibridazione delle due forze politiche che sostengono il Conte bis, come se un domani, neppure tropo lontano, debba darsi luogo a una sinistra tutta nuova mediante la trasfigurazione di riformismo e populismo.
Dunque, Renzi va bloccato, non bisogna dargli alibi. Come farlo, appunto, non è chiaro. Un certo tono anti-scissione, oscillante tra l’esortazione e la minaccia, stride con la dinamica dei fatti: il renzismo intercetta il “bisogno di modernità” che attraversa i ceti attivi del Paese. Dal convegno di Areadem non è venuta una proposta di apertura all’insegna della fantasia e della generosità. In questi casi, dovendo fronteggiare gli argomenti che alimentano un dissenso, sarebbe opportuno finalizzare ogni sforzo alla disattivazione delle cause del dissenso. Invece, attenendosi a un canone di mera conservazione degli equilibri interni, si dà manforte oggettivamente alla contestazione dei potenziali scissionisti. Qual è la risposta alla galassia dell’elettorato liberal-popolare, indisponibile a piegarsi all’esclusivismo delle istanze di sinistra? Quale lo sforzo di coinvolgimento, dentro un equilibrio rispettoso delle diversità, di quanti propendono a vedere nel centrosinistra, quand’anche da rinnovare alla radice, un fattore di coesione per riformisti e moderati?
A Franceschini non puo sfuggire che un discorso di puro contenimento delle pretese egemoniche di un ceto vagamente compiaciuto dal ritorno alla tradizione di sinistra, cessa di essere efficace dal momento che si palesa un’alternativa di modernità, impregnata di solidarismo e spirito di innovazione. In mancanza di un vero disegno di rifondazione, oggi più che mai necessario anche ai fini di una ritrovata funzione propulsiva del popolarismo, il Pd cessa di presentarsi come una calamita capace di attirare consensi vecchi e nuovi. Sì può deprecare la scissione, ma nella paralisi di pensieri e di azioni finisce per legittimarsi lo scisma evocato in questi giorni. Uno scisma, per altro, carico di speranze e suggestioni, al di là del fatto che sia o non sia consensuale. Serve a poco trincerarsi nel rifugio di una ipotetica ortodossia di partito, immaginando di far leva sul potere della censura. Franceschini deve fare di più.