Ci sono tradizioni destinate ad essere scalzate, fatalmente soppiantate da novità che a loro volta tentano nel tempo di accreditarsi come tradizioni. Ci sono riti che sembrano non perdere ancora la battuta, forti di una delega che però la maggioranza demanda ormai a uomini sparuti, incalliti di grigiore, che assumono orgogliosamente la responsabilità di celebrarli.
Tradizioni e riti hanno il fiato corto; per sopravvivere hanno indossato il vestito di abitudini, con meno forza dei vizi, e dureranno finché la moda non cambierà per altre forme.
La fine dell’anno è un’occasione di rendiconto, un confronto tra voci attive e passive dove si è più inclini a mettere a fuoco ciò che si è incassato rispetto a quanto si deve invece restituire. Ci sono anni in cui l’operazione viene facile e non comporta una particolare attenzione. E’ sufficiente ricalcare quanto fatto durante il calendario precedente, non ci sarà nessun maestro che ti rimprovererà per aver copiato.
Se gli accadimenti sono sempre gli stessi non sarà possibile, pur volendo, inventarsi particolari variazioni sul tema. Guerra, violenza e morte sono per adesso nobilitate a rango di tradizioni, ferme, almeno loro, a non degradarsi ad abitudini passeggere.
Non sono più sul banco delle notizie che vanno e che vengono, si sono radicate nei giorni, prendendo linfa dalla contemporaneità, sposandone i geni. Sono state capaci di un miracolo arduo persino per il Padreterno, inventando per loro un tempo fermo o che scorre privo di effetti.
L’epidemia è diventato un ricordo lontano che è sceso ormai dal treno della storia. Sembrava avesse indelebilmente marchiato la memoria degli uomini tenendoli in perenne allarme per un suo ritorno alla ribalta. Invece, se ne sono perse le tracce.
Quanto ad altro, alla povertà del mondo si dà quel tanto di attenzione che serve alla coscienza di quelli che se la passano meglio, confermando che loro sono invece sulla strada giusta. Insomma nulla di nuovo sotto al sole.
La vita continua. A fine anno, i pochi, che hanno per il sentimento della nostalgia ancora un po’ di suggestione, riparano nelle chiese per intonare il Te Deum.
Pregano anche per quelli che, fuori di lì, se ne fregano, perché sono stati abili a prendere le misure alla realtà così come è nuovamente. Se non puoi cambiare le cose devi essere rapido ad adattarti.
In quella gente rapida al cambiamento, l’istinto porta a chiamarsi fuori da una assemblea che recita parole difficili da caricarsi addosso. Il Te Deum è una preghiera con meandri paludosi che pungono la lingua appena si prova a pronunciarne parole.
“Accoglici Signore nella tua gloria nell’assemblea dei Santi” suona di una trepidante attesa al trapasso, per andare nella patria di quegli eroi di virtù di cui si invoca la compagnia. Essere Santi in vita è una ipotesi del resto da scartare. Troppo duro da masticare l’auspicio, quasi l’urgenza, di un Aldilà che fa fatica al respiro degli uomini del presente.
“ Ogni giorno ti benediciamo, lodiamo il tuo nome per sempre” è l’invocazione che ti mette in crisi, costringendoti alla menzogna. Segna una costanza che oggi può rivendicare solo il male. Qualche volta un affidamento a Dio può anche scappare, ma quella cadenza quotidiana è un impegno insostenibile anche per chi armato delle migliori intenzioni.
Infine, la strofa più scabrosa: “Degnati oggi, Signore, di custodirci senza peccato”. Sarebbe a dire di chiedere al Creatore il miracolo di un amore per una vita organizzata osservando una perenne dieta, mai un pizzico di sale a dar gusto alle cose. Si fosse onesti e senza ipocrisie, si potrebbe al massimo domandare di essere nelle grazie del Paradiso malgrado i peccati commessi ed a cui non si è fatta davvero rinuncia.
Il Te Deum ti porta necessariamente a steccare, nel mentre lo intoni il pensiero ti corre all’inverso.
C’è poi chi pensa che dovrebbe essere Dio a felicitarsi con gli uomini per ricordarsi ancora di Lui, sebbene di allegria sulla terra se ne scorge talvolta soltanto un’ombra.
Altri, invece, lo ringraziano perché il mondo così come, se non perfetto, è comunque sopportabile e non manca in ogni caso di regalare momenti di gusto. Nessun cambiamento sarebbe gradito. Va bene così. Inutile immaginare salti in avanti.
Si prega in un modo forse sperando talvolta di essere esauditi per l’opposto. “Tu sei la nostra speranza, non saremo confusi in eterno”. Restare nel disordine è una prospettiva che ha una sua appetibilità, difficile ripudiare un caos con cui si è ormai fatta confidenza. In agguato c’è sempre una dimensione piatta da cui guardarsi, priva di gustose impennate e di piccanti contraddizioni.
“Ogni anno punto è a capo” è una commedia di Eduardo dove un avventore va dal barbiere che è però momentaneamente assente. Nel negozio incontra la sorella del titolare che racconta la versatilità del fratello come compositore di canzoni, particolarmente ispirato dalla festa di Piedigrotta.
A seguire, anche il garzone, la manicure e un poeta, oltre allo stesso barbiere si distraggono dal cliente, tutti invece concentrati a parlare delle proprie passioni. Alla fine, il cliente, curiosamente trascurato, va su tutte le furie, venendo però subito tacitato dai personaggi in scena.
Almeno una volta, il Padreterno desidera sperimentare se sia oggetto di una qualche attenzione, se il mondo è ogni tanto disposto, pur remunerato, a prestare una qualche cura al prossimo. Lui, Dio, in prima fila, fa solo da esca, da specchietto per allodole con ali scheggiate e balbuzienti.
Secondo tradizione, nell’ultimo atto, riceve solo il richiamo a tacitarsi, rimproverato a causa del torto di non essere in sintonia con le passioni vere degli uomini. Urlerà, stonando e non verrà compreso da nessuno. Non c’è bisogno di prepararsi per il tempo che verrà. Ogni anno punto e a capo e tutto come sempre.