Articolo pubblicato dalla rivista Treccani a firma Mario Del Pero

La procedura d’impeachment di Donald Trump procede a pieno regime. Davanti alle commissioni competenti della Camera depongono a ritmo ormai quasi quotidiano alti funzionari dell’amministrazione, siano essi diplomatici di carriera o figure vicine al presidente che, come peraltro da consuetudine, sono stati catapultati in ruoli di responsabilità per i quali avevano talora poche o nulle qualifiche (è questo, ad esempio, il caso dell’ambasciatore presso l’Unione Europea Gordon Sondland, che ha svolto un ruolo centrale nel controverso dossier ucraino).

Il quadro che sta emergendo sembra essere abbastanza nitido. Trump e il suo avvocato personale, l’ex sindaco di New York Rudy Giuliani, hanno promosso un’azione finalizzata a ottenere dall’Ucraina intelligence politicamente spendibile, soprattutto in vista dell’elezione presidenziale del prossimo anno. Più precisamente, il presidente ha cercato di acquisire prove atte a dimostrare che fu l’Ucraina (e non la Russia) ad hackerare il server del Partito democratico durante la campagna del 2016 dall’allora vicepresidente Joe Biden, e, soprattutto, a evidenziare come da vicepresidente Biden avesse esercitato indebite influenze per evitare che fossero aperte delle indagini contro l’impresa ucraina dell’energia Burisma, presso cui lavorava come lobbista il figlio Hunter. Per ottenere tale intelligence, Trump ha esercitato forti pressioni sull’Ucraina e sul suo nuovo presidente, Volodymyr Zelenskij, al punto da congelare lo stanziamento di un consistente pacchetto di aiuti militari già approvati. Inoltre, il presidente avrebbe chiesto e ottenuto la rimozione dell’ambasciatrice a Kiev Marie Yovanovitch e la marginalizzazione di diversi diplomatici e funzionari critici della diplomazia parallela di Giuliani e, più in generale, di un’azione atta a trascinare un altro Stato dentro le dispute politiche e le dinamiche elettorali degli USA.

Il materiale per l’impeachment, è chiaro, non manca. Ma l’impeachment è processo tutto politico, dato che al Congresso è demandata la sua gestione (ed eventuale approvazione) e la Costituzione definisce in modo assai vago i reati presidenziali che ne autorizzano la procedura (“il tradimento, la corruzione” e gli “altri gravi crimini e misfatti” indicati nella sezione 4 dell’art. 2), lasciando così ampia discrezionalità all’organo legislativo e dando, indirettamente, forte potere a un’opinione pubblica che – come scoprirono in modi diversi Nixon nel 1974 e Clinton nel 1998 – può indirizzare il processo in un senso o in un altro. È quindi alla politica, alla campagna elettorale in corso (per la presidenza, ma anche per il Congresso) e agli orientamenti degli americani che ci si deve rivolgere per cercare di capire cosa ci aspetta e quali saranno le posizioni delle due parti – repubblicani e democratici, trumpiani e anti-trumpiani – nelle settimane e nei mesi a venire.

La Camera a chiara maggioranza democratica approverà – forse già entro l’anno – la messa in stato d’impeachment di Trump. La palla passerà a quel punto al Senato, trasformato in una sorta di tribunale, guidato per l’occasione dal presidente della Corte suprema, con dei membri della Camera a svolgere il ruolo di pubblici ministeri, e con i senatori nelle vesti di giudici. Una maggioranza qualificata di 67 senatori su 100 sarà necessaria per completare la procedura e approvare l’impeachment. Allo stato attuale, ci vorrebbe il voto favorevole di 20 dei 53 senatori repubblicani: prospettiva, questa, del tutto irrealistica, che ‒ salvo cataclismi ‒ ci indica come l’impeachment di Trump sia destinato ad arenarsi alla Camera alta. Per evitare questa sorte ci vorrebbe una svolta radicale dell’opinione pubblica e, soprattutto, una massiccia defezione di sostenitori di Trump. I sondaggi ci dicono che questa non è però in atto, a dispetto delle rivelazioni e di deposizioni che in più occasioni sembrano avere messo in un angolo il presidente e il suo entourage. Sull’impeachment pare anzi riprodursi plasticamente quella frattura – radicale tanto per fissità quanto per polarizzazione – che da tempo i sondaggisti misurano rispetto al tasso di approvazione di Trump e del suo operato. Vi è una maggioranza, chiara, ma non larghissima, di favorevoli; una spaccatura estrema tra gli elettori dei due partiti (appena un 10-12% di repubblicani si dichiara favorevole); una percentuale d’indecisi concentrata primariamente tra gli indipendenti.

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